“La crisi dell’istruzione riduce la qualità della democrazia”. Parla Mario Caligiuri

Intervista al professore di Pedagogia della comunicazione: “Lo scadimento medio del livello di istruzione riguarda tutto l’occidente ma in Italia è peggio, perché la scuola e l’università si sono tramutate in una sorta di ammortizzatore sociale per docenti e studenti”

La crisi dell’istruzione, più grave in Italia che in altri Paesi occidentali, abbassa la qualità della democrazia: ne è convinto Mario Caligiuri, professore di Pedagogia della comunicazione all’Università della Calabria e presidente della Società Italiana di Intelligence. Il livello della scuola e delle università soffre di un progressivo scadimento, anche frutto dei frequenti e contrastanti interventi degli ultimi decenni: quindici governi dal 1998 a oggi hanno unificato otto volte i ministeri dell’Università e dell’Istruzione e sette volte li hanno scorporati. Poi le riforme: dalle “tre i” di Moratti (2003) agli interventi di Fioroni e Mussi (2006), dai tagli di Gelmini (2008) alla “Buona Scuola” del 2015, dall’obbligo dei test Invalsi alle misure per l’emergenza Covid. “Un ginepraio”, nota Caligiuri, che ha intitolato “Maleducati – Educazione, disinformazione e democrazia in Italia” il suo ultimo libro pubblicato dalla Luiss University Press.

La qualità di una democrazia si fonda sulla qualità dell’istruzione?

Non c’è dubbio. Quando Tony Blair divenne premier enunciò le sue tre priorità: “Education, education, education”. Il livello delle nostre classi dirigenti, che con la globalizzazione si dovrebbe elevare, s’è fatto invece più scadente. Pensi a un ministro, a un vescovo, a un prefetto o al professore universitario di cinquant’anni fa rispetto a quelli di adesso.

Erano più istruiti?

Non è questione di più o di meno, ma di una base culturale differente. Allora erano più adeguati alle funzioni cui venivano chiamati. Lo scadimento medio del livello di istruzione riguarda tutto l’occidente ma in Italia è peggio, perché la scuola e l’università si sono tramutate, da luogo di formazione per la democrazia, in una sorta di ammortizzatore sociale per docenti e studenti. Le sedi universitarie sono aumentate a dismisura su base provinciale per figli di famiglie a medio e basso reddito, e il Ministero ha introdotto il criterio discutibile per alcuni aspetti di elargire contributi aggiuntivi agli atenei che fanno laureare in tempo gli studenti. Un incentivo ad abbassare il livello, un altro colpo alla meritocrazia in un Paese dalla mobilità sociale già bloccata.

Una laurea dell’obbligo?

È successo col diploma superiore. Le percentuali dei promossi dimostrano che per essere bocciati alla maturità bisogna proprio mettercela tutta.

Con tutte le riforme intervenute non si può dire che la politica abbia dimenticato l’istruzione.

Sono stati interventi contraddittori o parziali, sulla scia delle conseguenze educative del Sessantotto ribadite negli anni Novanta: un facilismo amorale che ha accentuato le distanze sociali. Solo la scuola e l’università basate sul merito possono dirsi davvero democratiche. Stiamo pagando la decadenza frutto degli anni in cui le attuali classi dirigenti si sono istruite, perché le conseguenze delle politiche educative si producono dopo decenni. Gli artefici del boom economico erano figli della riforma Gentile.

Se è così, l’educazione dovrebbe essere un tema prioritario.

Non lo è proprio perché dà frutti in tempi lunghi, a differenza delle questioni economiche che procurano risposte immediate. Perciò per chi governa le politiche educative risultano meno “sexy”. E ciò avvantaggia le autocrazie politiche e finanziarie rispetto alle democrazie occidentali.

Perché?

I nostri politici ragionano sui tempi di un tweet e Xi Jinping nei termini di mezzo secolo. In Cina c’è una strategia lunghissima per la Nuova Via della Seta. Qui litighiamo per il Ponte sullo Stretto. Però all’atto di decidere i sistemi autoritari sono più rapidi perché la politica prevale sull’economia, al contrario dell’occidente, e la globalizzazione favorisce chi è veloce nelle scelte: non solo le autocrazie, anche le multinazionali e le organizzazioni criminali. Si aggiungano gli sviluppi dell’Intelligenza artificiale, che rischia di creare secondo Yuval Noah Harari una divisione castale senza precedenti tra una ristretta élite e il resto della popolazione. I sistemi democratici sono i soli che potranno difendere, anche in questo scenario, la giustizia sociale.

Quali contromosse?

Velocizzare i tempi di apprendimento, migliorare l’istruzione, sviluppare una cultura diffusa dell’intelligence come strumento di comprensione della realtà per contrastare la disinformazione. Il campo di battaglia è la conquista della mente. Nel confronto con l’Intelligenza artificiale resto ottimista solo se riusciamo a potenziare il fattore umano, smettendo di credere che possa essere tutto ricondotto alla razionalità. È l’errore di Cartesio. La maggioranza dei nostri comportamenti è irrazionale, per cui sarebbe utile ampliare, per dirla con Huxley, le “porte della percezione”.

Lui lo sperimentò con l’acido lisergico.

Studiare le capacità cerebrali in questo senso non è un progetto di massa, ma neppure le competenze eretiche vanno escluse dalla nostra attenzione. Conosciamo ancora poco la mente: come spiegare un Gustavo Rol o una Natuzza Evolo? Per qualcuno sarà urticante, ma ogni possibilità va esplorata con cura.

È il recupero del pensiero magico?

In senso lato. Per capire dove va il mondo bisogna convivere anche con le ombre e illuminarle. Mi colpirono le tendenze della Biennale di Venezia del 2022: sembravano prefigurare una modernità incantata dopo l’insufficienza del pensiero razionale. L’arte non descrive ciò che è il mondo ma ciò che diventerà: ha la stessa funzione anticipatrice dell’intelligence. La chiave del futuro veniva identificata in una duplice ibridazione: uomo-macchina e uomo-natura. Sembrano tendenze contraddittorie ma procedono di pari passo.

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