La lobby transattivista britannica è in gran forma e torna ad agitare il rischio suicidio per i minori che non vengono trattati con farmaci. Anche se uno studio indipendente dell’università di Manchester li sconfessa. E anche in Italia Arcigay sta conducendo un’analoga campagna pro puberty blocker
Non per essere complottisti ma le lobby esistono e molto probabilmente ce n’è anche una – alquanto inferocita – che non smette di spingere dannatamente a favore dell’ormonizzazione dei bambini con comportamenti “non conformi” al sesso di nascita, nonostante sulla terapia affermativa si stia frenando dappertutto.
A quattro mesi dall’uppercut della Cass Review, da cui lo stop definitivo ai puberty blocker in Gran Bretagna, il fronte transattivista torna in ebollizione: correnti della British Medical Association propongono una mozione di sconfessione del rapporto per fare pressing sul nuovo governo Starmer che pare invece intenzionato a mantenere il ban; sui social media e su parte della stampa si torna ad agitare il rischio suicidio per i minori che non vengono trattati con farmaci, argomento di punta dei pro blocker con tutto il suo potenziale terrorizzante.
Ebbene, “i dati non supportano l’affermazione secondo cui vi sarebbe stato un forte aumento dei suicidi tra i giovani pazienti affetti da disforia di genere… Il modo in cui questo problema è stato discusso sui social media è stato insensibile, angosciante e pericoloso, e va contro le linee guida per una segnalazione sicura dei casi di suicidio”.
E’ scritto in modo chiaro e netto in uno studio indipendente condotto da Louis Appleby dell’università di Manchester, Department of Health and Social Care adviser on suicide prevention. Appleby ha esaminato i dati forniti dal Servizio sanitario britannico (Nhse) sui suicidi di giovani pazienti dei servizi di genere presso il Tavistock and Portman Nhs Foundation Trust per concludere che gli argomenti di chi continua ad agitare il rischio suicidio sono meramente ideologici.
Lo studioso attacca l’irresponsabilità di chi ricorre ricattatoriamente a questo tema, ricordando che “la segnalazione responsabile del suicidio nei media è un aspetto importante della prevenzione del suicidio e una caratteristica centrale della strategia nazionale”. Lo scopo è evitare che si formino “cluster di imitazione e suicidio in persone con caratteristiche simili”. Pertanto ai media e agli utenti dei social è richiesto di “assicurarsi che tutte le affermazioni sul suicidio siano basate su prove e provengano da una fonte affidabile; di evitare un linguaggio allarmante e drammatico; di evitare l’impressione che il suicidio sia il risultato atteso o probabile in determinate situazioni”.
Appleby si rivolge in modo esplicito al gruppo di difesa legale Good Law Project, promotore della campagna “Stop al divieto dei bloccanti della pubertà”, che sui social ha parlato di un’“ondata” e di “un’esplosione” di suicidi con “molteplici riferimenti a bambini che moriranno in futuro perché non sono in grado di accedere ai farmaci che bloccano la pubertà”, affermazioni retwittate migliaia di volte da altri attivisti e follower e riportate anche da giornalisti di chiara fama. Ma i dati, dettagliatamente analizzati nello studio, smentiscono categoricamente l’allarme.
In Italia Arcigay sta conducendo un’analoga campagna pro puberty blocker (“Chiedimi se sono felice”) per “fare andare via i pensieri oscuri”: la solfa è sempre la stessa. Il rischio suicidio, ormai smentito da numerosi studi, come ultima spiaggia per gli irresponsabili ideologi della transizione dei bambini.