Gli americani, i francesi e il rigetto della libertà

Magari alla fine il doppio botto non ci sarà. Chissà come, chissà perché, il nuovo colosso, la statua della libertà, dono dei francesi agli americani a fine Ottocento, reggerà. Francesi, americani e il ricordo dell’ebrea sefardita Emma Lazarus che consacrò nel suo celebre sonetto la statua ai senza tetto, agli scampati dalle tempeste, invocando la loro venuta, la loro salvezza, saranno preservati dal peggio. I ceti medi in presunto declino da globalizzazione e i proletari che in tutto il mondo occidentale, almeno nei due paesi capitali della libertà, invitano alla disunione e al particolarismo piccolo nazionale, piccolo borghese, per difendersi dalle moltitudini di Walt Whitman e dalla democrazia liberale a colpi di Trump e di Le Pen, forse non vedranno il rancore e la frustrazione al potere. Forse, ma le distanze si accorciano. Il mondo nostro vecchio, con un’aspettativa di vita immensa e perfino esagerata, con reddito consumi e welfare bestiali per i più e di contenimento per i disgraziati, ce la farà a smantellare la grande bugia, the big lie. Può darsi.    
Nel casino dell’overtourism, nella dilagante medicalizzazione dell’esistenza, nella cultura che considera un insulto alle donne cinque anni di sussidio a mille euro al mese per partorire controvoglia dopo una notte di amore e piacere, salvo lagnarsi del dramma dell’aborto e rivendicare il dramma come diritto civile, in questa sconsiderata “confusione morale” (citazione dal titolo di un bel romanzo di Lodovico Festa), resterà un lumicino di ragione che salverà la fiaccola di Liberty Island. Si dubita, si spera. Per l’Italia, che però è relativamente piccola e impotente, c’è aria di buon augurio. Le bugie, anche grandi, le diciamo ma quasi sempre senza crederci fino in fondo. Ma che francesi e americani debbano fronteggiare un’ondata di illiberalismo di massa, di disprezzo sociale delle élite che hanno difeso il passato, costruito il presente e organizzato le basi per il futuro, è comprensibile e atroce.

           

Una sociologia cupa dell’assalto delle periferie alle città, una scienza economica triste che vuole la fine del capitalismo per mano dei capitalisti senza sapere cosa significhi, una sindrome da complotto che confonde competenza civile e deep state, una sequela di miti armati di ideologia e di imbrogli parassitari, le passioni violente insulse e cornute dei gilet gialli e del 6 gennaio a Washington: ci prepariamo a premiare questo guazzabuglio? Può darsi. Beata la memoria di Benedetto Croce e la sua idea che la storia è storia della libertà. Qui si affaccia il cedimento progressivo a un mondo di dispotismo euroasiatico (Russia, Cina, Iran) e di intolleranza in occidente, il risorgimento antisemita è una spia infallibile del fenomeno. In pochi vogliono stare insicuri sulla sponda dell’ottimismo perdente, folle di corteggiatori del caos pensano di ricavare il salario della paura, il premio intellettuale del fiancheggiamento, da una fase distruttiva del liberalismo moderno, con tutte le sue ombre una fonte di luce. Inutile stare troppo a discutere degli errori, degli egoismi, delle intrattabilità del potere democratico e liberale in occidente, sfidato dalla guerra e dai pogrom e dal wokismo, snidato nelle sue false sicurezze dalle autocrazie e messo in pericolo mortale, solo è possibile attaccarsi al new colossus con le sue crepe e sostenerlo con le mani, anche se è un tremendo vaste programme questa caccia al Cretino Collettivo in rivolta.  

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