Il premier ungherese vuole l’alleanza delle destre estreme, c’è chi lavora per lui e chi non ne vuole sapere. Una storia di linee rosse saltate (anche in musica)
Tutti lo cercano, in pochi lo vogliono. Sulla carta Viktor Orbán è l’uomo che vuole, può, brama federare l’estrema destra a Bruxelles. Non è una novità, sentiamo ripetere dei progetti del premier ungherese dal 2021, quando lasciò il partito popolare europeo prima che fosse il Partito popolare europeo a cacciarlo. Uscì, sbattendo la porta, rinunciò alla più comoda delle poltrone del Parlamento europeo e si lasciò corteggiare un po’ dai Conservatori di Ecr e un po’ da Identità e democrazia (Id). Non volendo scegliere tra i due iniziò a disegnare la grande alleanza, ponendosi al centro. Ma in Ue i numeri contano eccome e Viktor Orbán è un prestigiatore, perché è riuscito sempre a trasformare il suo paese, che ha meno abitanti della Lombardia, come il regista dei “no” europei. Ha esaltato i suoi poteri di veto, è diventato maestro nel mettersi di traverso: come in uno specchio deformante il piccolo Viktor Orbán sembra un gigante. E’ consapevole del suo potere anche adesso che è a un passo da assumere la presidenza di turno del semestre europeo e lo fa mentre dietro le quinte macchina per costituire il grande gruppo delle destre estreme. Ma anche dentro a questo gruppo, che ancora non esiste, quanto conta Orbán con il suo partito Fidesz? La strategia degli specchi deformanti funziona anche con i suoi colleghi, perché il premier ungherese ormai è un simbolo, uno schermo, un apripista: ma sono tutti contenti di mettersi dietro a Orbán? Non proprio, non sempre.
La presidenza. Il primo luglio, inizierà il semestre europeo sotto la guida ungherese e Budapest ha scelto il motto: “Make Europe Great Again”. L’omaggio a Donald Trump è scontato, quasi didascalico per il premier che spera nel ritorno dell’ex presidente americano e che ospita suo figlio nella fucina della classe dirigente orbaniana, il Mathias Corvinus Collegium in cui Donald Trump Junior ha tenuto un discorso per dire che Budapest è l’ultima speranza dell’Europa. Al di là delle citazioni, il motto “Make Europe Great Again” sembra anche in controtendenza con le pretese di Orbán che dall’Ue pretende i soldi e rende difficile e complicata ogni spinta in avanti che sia in fatto di vaccini, di sicurezza o di energia. Il simbolo del semestre è un cubo di Rubik dipinto con i colori della bandiera ungherese da un lato e quelli della bandiera europea dall’altro. Budapest ha elencato le sue priorità: guerra, difesa, migrazione illegale, catastrofi naturali, cambiamento climatico. Non fa stare tranquilli che sia l’Ungheria, che continua a fare affari con Vladimir Putin, a dirigere il semestre mentre dovranno essere portati avanti i colloqui con l’Ucraina per l’ingresso nell’Unione europea, che rischiano di bloccarsi per sei mesi perché dal primo luglio al 31 dicembre sarà Budapest a decidere quali argomenti avranno la priorità rispetto ad altri e Kiev può finire in fondo alla lista. Non risponde all’agenda del Mega: quando il Consiglio europeo a dicembre dello scorso anno votò a favore dell’avvio dei negoziati per l’ingresso nell’Ue per l’Ucraina e la Moldavia, Orbán fu invitato a uscire dalla stanza e fu questo l’escamotage per superare il veto.
Per sei mesi sarà l’Ungheria a dettare l’agenda ei negoziati dell’Ucraina con l’Ue rischiando di finire in fondo alla lista
Orbán e il PiS. Il rapporto tra Orbán e la Russia è stato la ragione dello sfaldamento del gruppo di Visegrád, composto da Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia. Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022, tra i quattro paesi, soltanto uno non si decideva a condannare Mosca, soltanto uno si ostinava a dire che mai avrebbe permesso il passaggio delle armi per Kyiv sul suo territorio, soltanto uno accusava Volodymyr Zelensky e non Vladimir Putin: l’Ungheria. Il partito polacco PiS, che all’epoca governava, iniziò a prendere le distanze da Budapest, ma già prima che Mosca dichiarasse l’inizio della sua “operazione militare speciale” le differenze tra l’Ungheria e la Polonia riguardo al rapporto con la Russia erano lampanti. Quando Orbán uscito dal Ppe iniziò a orchestrare la sua unione delle destre, alcuni politici del PiS ci avevano detto che parlare di “coalizione” era esagerato, si poteva prevedere di coalizzarsi su alcuni punti, ma non su tutto, sicuramente non sulla Russia. Varsavia era il baluardo contro Mosca e il PiS lo rivendicava. Oggi, dietro agli incontri tra destre c’è Mateusz Morawiecki, lo stesso che qualche anno fa definiva il rapporto con Mosca una linea rossa, lo stesso che prima delle elezioni polacche di ottobre voleva istituire una commissione per indagare sui rapporti con il Cremlino dei politici di opposizione. Se per Morawiecki e il PiS la linea russa è oltrepassabile e l’alleanza con Marine Le Pen e Viktor Orbán non è più tanto storta è perché conta di giocare in casa la partita europea e preferisce un gruppo nutrito di destre estreme per poter scardinare il potere del Ppe, dove è il rivale per eccellenza a fare da mattatore: il premier Donald Tusk. Così Morawiecki fa le sue trame e non è più interessato alla sacralità di Ecr come tempio dell’atlantismo e dell’antiputinismo, vuole esplorare, cercare, anche se questo può dare fastidio ai suoi alleati. Ma non è sempre andata così, anzi.
Il progetto d’unità. Il primo aprile del 2021, Orbán ha invitato a Budapest il primo ministro polacco Morawiecki e Matteo Salvini – nelle immagini, tutti e tre indossavano le mascherine, stranamente. Il Fidesz orbaniano era fuori dal Ppe e il premier ungherese voleva cucire insieme la nuova alleanza all’insegna della difesa della sovranità nazionale e di quella che i tre chiamavano “il Rinascimento europeo fondato sui valori cristiani”. Tre mesi dopo, il 2 luglio, quel primo incontro è diventato una dichiarazione di sedici partiti europei – tra cui il Rassemblement national di Marine Le Pen, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, lo spagnolo Vox e l’austriaco Fpö – che si sono unità contro le manie di integrazione dell’Ue: “L’Ue sta diventando sempre più lo strumento di forze radicali che vogliono portare avanti una trasformazione culturale e religiosa e che hanno come fine ultimo la costruzione di un’Europa che ambisce a essere un superstato europeo”. Non c’era la volontà di creare un unico gruppo al Parlamento europeo, ma ci si voleva contare e ostentare un collante antieuropeo più forte delle profonde e sostanziali differenze tra i diversi partiti. I pesi di ognuno erano diversi rispetto a quelli di oggi, ma in ogni caso sette mesi dopo l’invasione dell’esercito di Vladimir Putin in Ucraina avrebbe fatto saltare il collante: per molti partiti, a partire dal PiS polacco, l’aggressione russa rappresenta un pericolo ben maggiore rispetto alla spinta integrazionista dell’Ue. Orbán ha usato questi due anni per ritagliarsi un ruolo privilegiato dentro l’Ue e dentro la Nato – riuscendoci: può ancora comprare il gas russo e non può dare nessun contributo allo sforzo della Nato a sostegno ea difesa dell’Ucraina – e per costruire un network globale che di là dall’Atlantico fa capo a Donald Trump, mentre verso est si salda in relazioni cordiali e redditizie con il Cremlino e con la Cina. Dall’inizio di quest’anno, in vista del semestre di presidenza, Orbán ha ricominciato la sua tessitura e ora che vuole trovare un gruppo per Fidesz dice apertamente: uniamoci tutti, senza fare troppo gli schizzinosi e badare alle linee rosse che ci dividono, così possiamo assediare davvero gli europeisti. E per siglare l’unione insiste soprattutto su Meloni e Le Pen, le vittoriose delle europee che con i colori pastello si sono riposizionate nelle percezioni di molte capitali.
In Ecr c’è chi non vuole Orbán e Meloni non ha molta convenienza a stare con Le Pen. Solo il PiS è convinto
Orbán e Le Pen. All’incontro di Budapest dell’aprile del 2021, Orbán non aveva invitato Le Pen. In un’intervista aveva detto che preferiva i leader con esperienza di governo, all’opposizione siamo bravi tutti. Nell’ottobre di quell’anno era stata la stessa Le Pen a chiedere di andare a Budapest in visita da Orbán: si era appena costituito in Francia il gruppo politico di Eric Zemmour, che allora sembrava molto fastidioso per il Rassemblement national (non lo era ) e che soprattutto aveva già avuto l’onore di essere accolto alla corte di Orbán. Ma come, non era una questione di esperienza e di governo? Ecco che Le Pen pretese la sua ribalta e il premier ungherese non si tirò indietro, anzi, l’accolse con tutta l’enfasi del caso. L’anno successivo, in occasione delle presidenziali francesi, una banca ungherese ha fatto un prestito milionario alla campagna di Le Pen: l’invasione su larga scala di Putin in Ucraina era già iniziata, la leader del Rn aveva dovuto gettare via in tutta fretta i volantini elettorali che la ritraevano assieme al presidente russo, ma la sintonia con Mosca ha permesso di rafforzare la relazione tra lei e Orbán. Nel settembre dello scorso anno, in vista dell’anno elettorale europeo e mentre iniziava a montare la cosiddetta “fatica” della guerra su cui i sovranisti filorussi di destra e di sinistra hanno soffiato maligni, Le Pen è tornata a Budapest, sempre accolta con l ‘entusiasmo che si riserva ai vincitori annunciati: daremo insieme una risposta forte alle “ambizioni imperialiste di Bruxelles”, hanno detto i due leader vicini a Putin e senza senso del ridicolo, contrasteremo le politiche economiche, sociali e pro migranti dell’Europa, hanno continuato, facendo calcoli di unità.
Orban e Meloni. Da molto tempo ci si interroga su che cosa voglia fare la premier italiana riguardo alle nomine e alle alleanze al Parlamento europeo. La sintonia colore pastello – stesso pantone – con Ursula von der Leyen ha contribuito alla convinzione che Meloni avrebbe confermato il presidente della Commissione al suo posto. La prima a convincersi è stata proprio von der Leyen che oggi, per i voti di Fratelli d’Italia, è disposta a fare concessioni ea ignorare la ben più conveniente e stabilizzante proposta di cooperazione dei Verdi. Ma al vertice informale post elettorale in cui sembrava si dovesse soltanto confermare i nomi che circolavano – von der Leyen alla presidenza della Commissione, l’ex premier portoghese Antonio Costa al Consiglio europeo e la premier estone Kaja Kallas alla guida della diplomazia europea – la “ queenmaker” Meloni è stata ad aspettare per tre ore che i leader delle grandi famiglie politiche europee si incontrassero e discutessero tra di loro, si è infuriata e intanto ha incontrato Orbán e Morawiecki. Agli occhi dei leader europeisti, che finora avevano apprezzato il pragmatismo di Meloni, questa scelta equivale a un’autoesclusione: tra essere la più conservatrice degli europeisti o la più cooperativa degli anti europeisti, la premier si è seduta con il premier ungherese e l’ ex premier polacco che puntano a un gruppo unico con Le Pen, in cui tutte le linee rosse sono saltate e che a Meloni non conviene neppure troppo: perché privarsi del ruolo di leader accogliendo la cospicua formazione di deputati europei che offre in dote Marine Le Pen ? Inoltre, dentro ai Conservatori e riformisti, questa alleanza sregolata non viene presa con leggerezza: tutti insieme, qui, non ci stiamo e non ci staremo, dicono i sovranisti svedesi, cechi e fiamminghi.
Le linee rosse scompaiono, sbiadiscono in politica estera, interna, tra alleati, tra nemici e anche in fatto di musica e costumi. Un rapper di ventidue anni che tutti in Ungheria conoscono con il nome biblico Azahriah sta facendo il tutto esaurito girandosi il paese. Riempie stadi, i ragazzi canticchiano le sue canzoni, un regista sta facendo un film su di lui. Il vero nome è Attila Bauko, è cresciuto con sua madre che lavorava per l’esercito, ha visto poco suo padre che si era trasferito in Germania per lavorare come meccanico. Bauko ha un fan inaspettato, il premier ungherese Viktor Orbán, che fa video su TikTok con le sue canzoni nonostante la più famosa, Rampapapam, sia un’ode alla cannabis: eppure al conservatore Orbán piace tantissimo e festeggia il tutto esaurito dei suoi concerti e il cantante ha detto di sentirsi un po’ in imbarazzo, ma dopo tutto, non ci tiene a parlare di politica, quindi il premier può canticchiare le sue canzoni quanto vuole. Orbán ha paura di perdere i più giovani e poco male se si ritrova a canticchiare canzoni rap che poco hanno a che fare con l’osannata famiglia tradizionale, per vincere si fa di tutto, si superano tabù: glielo hanno insegnato anche i suoi colleghi in europei, dopo tutto.