La surrealtà dell’atletica al fotofinish

In quelle immagini i corpi non sono corpi, non almeno corpi reali. Sono corpi che non esistono, non potrebbero esistere, ma tant’è. Corpi che sembrano fantastici, inumani o forse troppo umani. Arti che si allungano, che si restringono, che si ingrossano o diventano sottili, sottilissimi, che quasi scompaiono. E teste che diventano aliene, sembrano Sloth dei Goonies, si trasformano in musi di Pippo o in orecchie di Topolino. La realtà che esce dalle immagini dei fotofinish dell’atletica leggera sembra proveniente da un quadro di Salvador Dalì o da un’illustrazione di Roland Topor, da una scultura di Alberto Giacometti o di André Masson.

Il fotofinish ha eliminato l’ex aequo, ha quasi escluso nello sport la possibilità della parità, ristretto il campo del volemosebbene, imposto la superiorità della tecnica sul buon senso del parimerito, del meglio premiare entrambi perché sono arrivati lì dove l’occhio umano non può vedere. Lo considerano un passo avanti, un gesto d’equità sportiva. Lo sport è iniquo fisicamente e biologicamente, si doveva in qualche modo compensare.

Il fotofinish è un giudice di cassazione, crudele e indifferente al fatto che un millimetro su cento, duecento, migliaia e migliaia di metri potrebbe essere considerato un errore minuscolo, talmente minuscolo da poter essere ritenuto marginale. È un giudice di cassazione però che ha aggiunto arte allo sport, ci ha concesso il surrealismo.

Surreale come la Nazionale italiana in cima al medagliere di questi Europei. Solo nel decennio scorso avremmo sfottuto, e pesantemente, chiunque se ne fosse uscito con questo pronostico.

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