Che piani hanno i kingmaker d’Europa

Si aprono le urne, poi si dovranno scegliere i “top job”. Von der Leyen ce la farà? E il piano B Mario Draghi? I calcoli dei leader (qui si è tendenza Tusk)

Da giovedì 373 milioni di persone votano per eleggere i rappresentanti nazionali al Parlamento europeo – molti elettori sono alla loro prima volta, visto che l’età per poter votare è stata abbassata a 16 anni in Germania, Austria, Belgio e Malta, e a 17 anni in Grecia. Le ultime proiezioni realizzate da Europe Elects ed Euractiv, alla vigilia del voto nei Paesi bassi che iniziava giovedì, confermano le tendenze registrate finora sulla composizione del Parlamento europeo: al Partito popolare europeo sono attribuiti 182 eletti, che gli consentiranno di restare il primo gruppo. Ai Socialisti&Democratici dovrebbero andare 136 deputati. I liberali di Renew potrebbero rimanere la terza forza con 81 seggi (una ventina in meno di quelli attuali), ma sono tallonati dal gruppo sovranista dei Conservatori e riformisti europei (Ecr) con 79 eletti. Dopo l’espulsione di Alternative für Deutschland, al gruppo di estrema destra Identità e democrazia sono attribuiti 69 eletti. Tuttavia i due gruppi delle destre nazionaliste hanno un potenziale bacino dove raccogliere altri deputati, cioè circa 80 seggi che andranno a partiti che siedono tra i non iscritti o sono non affiliati. Ai Verdi sono attribuiti 55 seggi, mentre al gruppo la Sinistra sono attribuiti 38 seggi. Sulla base dei risultati elettorali, i capi di stato e di governo dei paesi europei inizieranno i negoziati per decidere chi saranno i leader della prossima legislatura: le nomine dovranno poi essere confermate dal Parlamento europeo. Al momento, lo scenario più probabile è che la Spitzenkandidatin del Partito popolare europeo, il primo gruppo al Parlamento europeo, Ursula von der Leyen, attuale presidente della Commissione, sarà nominata dal Consiglio europeo post elettorale. Von der Leyen deve trovare una maggioranza al Pe, e nel caso in cui non dovesse trovarla, si dovrebbe passare a un piano B. Siamo andate a vedere quali sono le attese, i calcoli e le preoccupazioni dei kingmaker dell’Europa che verrà.


Emmanuel Macron. Il presidente francese è il kingmaker politicamente più debole di tutti i leader: i sondaggi danno il partito della sua principale e storica rivale Marine Le Pen, il Rassemblement national, al 33 per cento, cioè con il doppio dei consensi rispetto alla lista macroniana Besoin d’Europe. La storia più importante di questa campagna elettorale è questa: il successo dei lepenisti e lo sconvolgimento negli equilibri francesi ed europei che ne deriverà. Macron ne è perfettamente consapevole ed è anche responsabile degli errori fatti finora, primo fra tutti la scelta di una capolista, Valérie Hayer, che si è rivelata fragile. Il presidente francese ha comunque i suoi piani: von der Leyen è una sua creatura, fu lui a indicarla nel 2019 quando crollò il sistema dello Spitzenkandidat. A febbraio, una visita di von der Leyen all’Eliseo era passata come il momento dell’investitura non esplicita, ma poi la campagna elettorale della presidente della Commissione è stata un susseguirsi di inciampi e di frenesie varie che si sono sommate al fatto che von der Leyen, in questi cinque anni, non ha fatto grandemente gli interessi francesi, anzi in alcuni casi li ha proprio contrastati, come è accaduto con il nucleare che al momento è mezzo fuori dalla tassonomia delle energie eco-sostenibili dell’Ue. Negli ultimi tempi, quando l’insofferenza di Macron si è fatta evidente, von der Leyen ha cercato di recuperare, con la mancata firma del Mercosur e introducendo la possibilità di mettere dazi sulle auto elettriche. Il presidente francese quindi è pronto a dare il suo sostegno alla riconferma della presidente della Commissione, ma ha alzato il prezzo: in termini di nomine, ambisce a dare alla Francia un vicepresidente della Commissione, il vicecapo gabinetto di von der Leyen e il segretario generale della Commissione. In più Macron vuole che le priorità della prossima Commissione tengano in conto (eufemismo: vorrebbe la priorità) delle posizioni francesi su politica industriale, accordi commerciali, difesa, protezionismo. Il piano b c’è e con tutta probabilità è Mario Draghi, che è forse il piano b più rilevante che ci sia, pure se Macron è convinto che parlarne sia il modo migliore per bruciarlo: tutte le volte che sono uscite indiscrezioni che legavano il presidente francese all’ex primo ministro italiano, l’Eliseo le ha smentite.

C’è chi è convinto che fare il nome di Draghi finisca solo per bruciarlo. La soluzione tutta “verde” di Scholz


Olaf Scholz. Da quando è stato eletto, il cancelliere tedesco ha dovuto badare alla tenuta della sua coalizione di governo tra socialdemocratici, verdi e liberali, all’ascesa dell’AfD e alle relazioni burrascose con Parigi. Nei sondaggi, il suo Spd si litiga il secondo posto dietro ai cristianodemocratici con i Verdi e con l’AfD, tutti e tre attorno al 14-15 per cento dei consensi. Scholz è pronto a riconfermare von der Leyen alla guida della Commissione, in virtù del fatto che lei ha tenuto in questi cinque anni molto in considerazione le aspettative e anche le tempistiche della Germania su tutte le questioni più rilevanti per Berlino. Il cancelliere però ha escluso l’ipotesi di costruire una “maggioranza Ursula” assieme ai partiti dell’estrema destra: non ha fatto, come invece von der Leyen, una distinzione tra destre frequentabili e destre che non lo sono né ha mai discusso di linee rosse. Il messaggio di Scholz è chiaro: la maggioranza a Strasburgo deve essere formata da partiti europeisti, come è sempre stato. Se così non fosse, anche il cancelliere ha il suo piano b: secondo il sito Politico, sta scritto nell’accordo di coalizione del governo tedesco. Se la presidenza della Commissione non va alla Germania, allora i Verdi possono indicare un nome per una carica rilevante – i famosi “top job” di Bruxelles – nella Commissione. I nomi che circolano assieme al piano b sono quattro: Franziska Brantner, che è stata europarlamentare per i Verdi per un decennio, ha una grande esperienza sulle politiche del commercio e oggi lavora nel ministero dell’Economia tedesco, guidato dal vicecancelliere Robert Habeck; il secondo nome è quello di Sven Giegold, anche lui europarlamentare per un decennio, esperto di piccole e medie imprese e considerato il braccio destro di Habeck. Poi ci sono i nomi più stellari, anche se i più improbabili: l’attuale ministra degli Esteri Annalena Baerbock a capo della diplomazia europea e lo stesso Robert Habeck in un altro “top job”. Entrambi hanno ambizioni più tedesche che europee.

Donald Tusk. Il primo ministro polacco è il kingmaker più forte, perché viene da una vittoria elettorale storica che ha cambiato di segno il ruolo del suo paese in Europa, perché conosce molto bene i meccanismi dei negoziati e delle nomine, essendo stato presidente del Consiglio europeo e presiedendo il Partito popolare europeo, perché è il leader più autorevole dell’Europa centro-orientale e perché nel quadro del cosiddetto “triangolo di Weimar” è stato molto coinvolto da Francia e Germania nella gestione degli equilibri europei. Von der Leyen ha cercato di corteggiare Tusk con molta enfasi, ma secondo diverse fonti, la priorità del premier polacco non è la riconferma della candidata del Ppe, quanto il posto di Alto rappresentate per la politica estera dell’Ue, che lui vorrebbe dare al suo ministro degli Esteri, Radoslaw Sikorski. Ma il Ppe non può avere due “top job”, la presidenza della Commissione e l’Alto rappresentante, e quindi per forza Tusk deve scegliere tra la Polonia e il Ppe. Dentro al Ppe, molti temono che sarà proprio il premier polacco a fare il nome sospiratissimo di Mario Draghi per la presidenza della Commissione, ponendo così fine a vent’anni di dominio dei popolari sull’esecutivo dell’Ue. In questo modo i socialisti potrebbero indicare il nome del presidente del Consiglio europeo (il più gettonato è l’ex premier portoghese Antonio Costa) e al Ppe andrebbe l’Alto rappresentante, quindi il polacco Sirkoski, che per quel che riguarda la minaccia più grande alla sopravvivenza dell’Europa, cioè la Russia, sarebbe la nomina perfetta.

Macron è politicamente il più debole, ma è anche il più stufo. Tusk deve scegliere tra il Ppe e la Polonia. L’enigma Meloni

Giorgia Meloni. Anche la premier italiana è un kingmaker forte. Ha sorpreso gli altri leader con il suo spirito pragmatico e cooperativo durante i vertici europei e il suo partito Fratelli d’Italia diventerà una delle grandi delegazioni del Parlamento europeo. Von der Leyen ha scommesso su di lei, annunciando pubblicamente l’intenzione di allargare la sua maggioranza a Meloni: “E’ chiaramente pro europea, pro Ucraina e pro stato di diritto”. Il problema è che gli altri partner della “maggioranza Ursula” – i socialisti e i liberali – sono convinti del contrario. Lo Spitzenkandidat dei socialisti, Nicolas Schmit, continua a dire che Fratelli d’Italia è di estrema destra e se ci sarà una cooperazione formale con Meloni, lui e i liberali hanno promesso di votare contro von der Leyen. L’altro problema è il flirt ambiguo che è nato con Marine Le Pen: anziché rifiutare il corteggiamento e la proposta di unire le forza in un grande gruppo di nazionalisti al Pe, Meloni ha risposto che Le Pen “sta facendo un percorso interessante”. La sua volontà dichiarata di esportare a Bruxelles la maggioranza tutta di destra che guida a Roma è aritmeticamente improbabile (le proiezioni indicano che i numeri di Ppe, sovranisti ed estrema destra non sarebbero sufficienti) e politicamente impossibile (il Ppe imploderebbe in caso di coalizione formale con partiti nazionalisti). Il progetto della “maggioranza Giorgia” nell’Ue semmai contribuisce a rafforzare, tra i socialisti e i liberali, l’immagine di Meloni di leader di estrema destra che vuole distruggere l’Europa dall’interno. I suoi colleghi capi di stato e di governo, così come von der Leyen, sono convinti che da lunedì, finita la campagna elettorale, tornerà a essere pragmatica e cooperativa. Se la conferma della presidente della Commissione dipenderà dai voti di Fratelli d’Italia, la sua posizione negoziale sarà ancora più forte.


I più piccoli. Se von der Leyen dovesse essere scartata (dal Consiglio europeo o dal Parlamento europeo) molto dipenderà da cosa sceglieranno di fare il Ppe e i suoi leader. Uno degli ostacoli a una candidatura Draghi è la determinazione del Ppe di mantenere il controllo della Commissione. Il Ppe ha già pronta una lista di candidati alternativi a von der Leyen: il premier greco Kyiriakos Mitsotakis, quello croato Andrej Plenkovic, il presidente rumeno Klaus Iohannis. Il jolly è la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola. Ma nessuno di loro ha un vero calibro politico. Tra i piccoli kingmaker c’è anche Pedro Sánchez, che negozierà a nome del Pse i “top job”. Ma il premier socialista spagnolo è un leader scaltro e cinico, che negozia più per sé che per i compagni socialisti. Cinque anni fa aveva una sola priorità e l’ottenne: lo spagnolo Josep Borrell come Alto rappresentante per la politica estera. Questa volta la sua priorità è piazzare Teresa Ribeira alla Commissione come vicepresidente per il Green deal e l’Energia. Se von der Leyen sarà confermata (Sánchez è a favore), il premier spagnolo potrà vendere ai compagni socialisti europei un successo che è scontato per la necessità di rispettare gli equilibri tra partiti: l’ex premier portoghese, Antonio Costa, nominato presidente del Consiglio europeo.



Oltre ai kingmaker ci sono i piccoli elettori, generalmente ai margini (a volte solo informati) delle trattative tra i grandi. Ma c’è un gruppo di piccoli elettori che, dopo l’aggressione della Russia contro l’Ucraina, sta guadagnando sempre più peso politico. Sono i paesi nordici (Finlandia, Svezia e Danimarca) e i Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania). La minaccia rappresentata da Vladimir Putin ha dato loro ragione e forza politica. Ma ha anche cambiato il loro modo di pensare l’Ue. Uno a uno questi paesi stanno abbandonando il gruppo dei “frugali”, perché si rendono conto che c’è bisogno di più Europa (e più soldi) per proteggersi. La premier estone, Kaja Kallas, ha lanciato l’idea di Eurobond per la difesa per 100 miliardi di euro. Gli altri baltici sono d’accordo. Ultima in ordine di tempo, la premier danese, Mette Frederiksen, ha detto di non avere linee rosse ed essere pronta a discutere di tutto. Non saranno loro a opporsi a Mario Draghi, se infine la candidatura di von der Leyen dovesse crollare dopo tante, forse troppe, scorribande ai margini dell’europeismo.


(ha collaborato David Carretta)

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