Alessandro Piperno alla Festa del Foglio: “La scrittura senza gioia è un peccato mortale”

Alessandro Piperno è francesista, curatore dei Meridiani Mondadori e ha da poco pubblicato “Aria di famiglia” per la stessa casa editrice, romanzo in cui Annalena Benini riconosce una grande felicità di scrittura: uno dei suoi più riusciti e belli, che va oltre il “tormento dello scrittore”, la cui vita forse non è così leopardiana. Ma quindi scrivere rende felici?

“Penso a un’espressione delle vecchie antologie di letteratura come il Pazzaglia, il Sapegno: parlando di un classico italiano si diceva ‘qui il Manzoni raggiunge un grado di straordianaria felicità’. Mi chiedevo cosa volesse dire, visto che si parlava di cose tormentose, tragiche, quali le vicende narrate nei ‘Promessi sposi’. Espressione ritrovata poi nel corso degli anni, e pensavo fosse un vezzo, poi ho capito che quell’idea romantica per cui c’è sintonia tra la tristezza e la scrittura e l’ambizione artistica era un’assoluta follia. Non c’è nulla di virtuoso nell’infelicità, come non c’è nella nevrosi. Sono solo un ostacolo. Fare un manufatto artistico senza metterci dentro gioia è un peccato mortale. Il paradosso è che la grande letteratura parla di cose molto tristi, ma se non lo fa con uno slancio pieno di felicità, non è arte. Immagino che nei momenti in cui scriveva le sue cose meravigliose, persino Leopardi, emblema dell’infelicità, fosse assolutamente felice. Nel mio piccolo, è successo che nel corso degli anni, liberatomi dal senso di impostura e inettitudine che spesso affligge chi fa questo mestiere, mi sono reso conto che era il momento di spassarsela”.

Invitato da Annalena Benini, Piperno ricorda poi la volta in cui gli venne incontro Simona, la sua compagna, per liberarlo dalle sue preoccupazioni e dalla sua mitomania: “Mi capitò di scrivere un esordio che fece abbastanza clamore. Ho subìto l’influsso di questa cosa, il peso dei grandi che soverchia chi scrive. Poi io che mi ero formato su Proust e Flaubert, farneticavo evocando i fantasmi di questi grandi. Dopo un drammatico litigio, la mia compagna, consultando questo brogliaccio di migliaia di pagine, mi disse: ‘Alessandro, tu non sei Flaubert, e non lo sarai mai’. Fare i conti con la propria mediocrità, con la propria voce magari non totalmente genuina, ma che è la tua, è qualcosa che mi ha dato la stura. Oggi lavorare non è più un tormento ma un esercizio di felicità che pratico con ardore”.

Tanto che già si parla di un seguito: “Sto scrivendo un altro libro, anzi due: la terza parte della mia trilogia, e un saggio che si chiamerà ‘Ogni maledetta mattina’, sull’arte di scrivere”.

Il desiderio, la paura, il tormento e il divertimento di scrivere: quali sono i modelli presi in considerazione? “Non parlo di me stesso ma dei grandi scrittori che studio da una vita. Ci sono due modi di affrontare la scrittura: il modo di Flaubert, per il quale era un tormento, una media di trenta pagine all’anno lavorando dieci ore al giorno. Scriveva con una cura e una maniacalità che sfioravano il misticismo, in uno strano paradosso: non credeva nell’ispirazione ma era ispirato come un mistico romantico. Per fare ciò si è rovinato la vita e, Dio mi perdoni, ma senza tutto questo i suoi romanzi avrebbero potuto essere più belli, perché la prosa di Flaubert è anche legnosa. La sua antitesi è Stendhal, che scrisse ‘La Certosa di Parma’ in 53 giorni, solo per il gusto di divertirsi. All’università dicono che era un cialtrone di genio. Gli piaceva raccontarsi le storie, e il pubblico era un pretesto. L’idea dei due modi di scrivere raccoglie il senso di questo prossimo saggio. Divertire se stessi e fottersene degli altri, riuscirci sarebbe una bella cosa”.

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