Le proteste pro Palestina nei campus americani, parola per parola

Un dizionario essenziale delle manifestazioni nelle università dal 7 ottobre a oggi, a partire da una lettera aperta quasi istantanea. I boicottaggi, la libertà accademica e la deriva dell’“iperprotezione”

Riunite dai media italiani sotto un’unica rubrica come fossero assimilabili alla coreografia familiare delle nostre, le proteste nei campus americani hanno avuto in realtà motivi e conseguenze diversi e un impatto sull’opinione pubblica persino superiore alla loro vasta rappresentazione mediatica. Mentre si avviano alla loro naturale estinzione, con la fine dell’anno accademico, la cerimonia dei diplomi e l’inaugurazione del nuovo anno, si può provare ad analizzarle, per quello che hanno significato per la società americana, più che per gli obiettivi politici perseguiti ed eventualmente raggiunti. Per questo ne ho raccolto gli aspetti principali in un alfabeto essenziale, che rappresenti la pluralità di attori, luoghi e istanze in conflitto e ne mostri, per quello che è possibile, la relazione, senza aspirare a darne un giudizio univoco e definitivo.



Antisemitismo

Evocato di continuo, minimizzato, brandito come un’arma, è l’elefante nel campus. In un sondaggio condotto da un gruppo di associazioni ebraiche prima della crisi attuale, il 73 per cento degli studenti intervistati aveva confermato forme di antisemitismo, perlopiù nei confini protetti dalla libertà di espressione (v. First amendment). Alla fine dell’anno scorso, nel corso dell’audizione parlamentare di tre rettori di importanti università della costa orientale occasionata da alcune denunce studentesche, la repubblicana Elise Stefanik ha parlato di “antisemitismo rabbioso”, senza fornirne esempi probanti. L’audizione si è conclusa con le dimissioni a furor di media conservatori di due dei rettori convocati (v. Gay). A febbraio, Columbia e Barnard College sono stati citati in giudizio da organizzazioni e da studenti ebrei per le manifestazioni pro Hamas nei campus dopo il 7 ottobre, in virtù del Titolo VI del Civil Rights Act che punisce ogni discriminazione con la perdita dei finanziamenti statali. Nella citazione si legge che “il totale fallimento e il rifiuto deliberato della Columbia di alzare un dito per terminare e scoraggiare tali oltraggiosi comportamenti antisemiti e per disciplinare gli studenti e i docenti che li hanno perpetrati” hanno contribuito a creare un ambiente poco sicuro per gli studenti ebrei (v. coddling). Alla denuncia è seguita l’audizione del rettore della Columbia, Nemat Shafik (v. Shafik), la quale ha riconosciuto la gravità di alcuni degli atti segnalati, disapprovando le dichiarazioni di due docenti filopalestinesi (v. libertà accademica). Nonostante New York (v.) conti la più numerosa comunità ebraica degli Stati Uniti, la Columbia University è da tempo considerata una pessima scelta per gli studenti ebrei, anche per la presenza di docenti e di studenti di origine araba e/o musulmana, sostenitori della teoria di Israele come stato di apartheid e coloniale (v. BDS, Israele, open letter, Zionism). Non che gli Stati Uniti siano sempre stati un porto sicuro per gli ebrei, come ricordava la storica dell’ebraismo Pamela Nadell durante l’audizione di dicembre, citando le campagne di stampa finanziate da Henry Ford negli anni Venti contro “L’Ebreo internazionale”, additato come “il principale problema del mondo” e le quote imposte dalle università all’iscrizione di studenti ebrei. Entrambe sono confluite, in anni più recenti, nella teoria della sostituzione etnica da parte degli ebrei e nella denuncia della “élite globalista” (leggi Soros), riprese, insieme al negazionismo, da una parte del Partito repubblicano. Nadell concludeva suggerendo che l’antisemitismo, come altre forme di razzismo, non è altro che una delle facce dell’intolleranza, radicata nella cultura americana insieme ai suoi antidoti.

Bds, Sjp e Cuad

Bds (Boycott, Divestment and Sanctions), assieme a Sjp (Students for Justice in Palestine) e Cuad (Columbia University Apartheid Divest), sono le sigle delle principali organizzazioni dietro il movimento studentesco pro Palestina. Bds e Sjp sono entrambi gestite negli Stati Uniti da Hatem Bazian, attivista palestinese vicino ai Fratelli musulmani. Bazian, storico di Berkeley, antisionista e antioccidentale, si definisce “teorico islamico decoloniale” ed è uno dei principali divulgatori della tesi di Israele come “apartheid state”, prodotto di un colonialismo di insediamento (“settler colonialism”), tesi che trova sostenitori nelle università di élite (v.) e fra molti giovani storici e sociologi ebrei americani. Il Bds, fondato circa venti anni fa, dopo il fallimento dei colloqui di pace, dall’attivista israelo-palestinese Omar Barghouti, propone lo smantellamento dello stato israeliano e l’istituzione di un solo stato che riconosca il diritto di ritorno ai palestinesi ed elimini ogni discriminazione favorevole agli ebrei. Sulla via di questo obiettivo finale, il Bds persegue il boicottaggio dei prodotti e il disinvestimento dai progetti accademici condivisi con le università israeliane. Tali richieste, avanzate in innumerevoli appelli e manifesti provenienti soprattutto dal Regno Unito e diretti alle società accademiche di studi mediorientali, hanno ispirato 5 anni fa il tentativo di boicottare l’edizione dell’Eurofestival in Israele. Rashida Tlaib e Ilhan Omar, parlamentari democratiche musulmane (Tlaib è anche palestinese, v.), hanno appoggiato la campagna del Bds, la cui importanza è da allora cresciuta negli Stati Uniti, con la sostituzione di una leadership religiosa a quella laica e con il probabile supporto del Qatar (v. Uea).

Coddling

Coddling è una parola dal significato familiare, più o meno “iperprotezione”. In questo caso, più che alla maglietta di lana (c’è anche quella), si riferisce soprattutto alla sopravvalutazione di ogni sintomo di disagio psicologico, promossa da programmi universitari noti collettivamente come Dei, ossia, “diversità, equità e inclusione”, interpretazione estrema dell’affirmative action. Per il Dei, uno studente può chiedere un intervento ufficiale per mettere fine alla condivisione di spazi con altri con cui sia in disaccordo. Anche se il Dei è stato un tema delle proteste su entrambi i fronti, quello volto a proteggere gli studenti delle minoranze è stato indicato come uno dei bersagli dell’audizione conclusa con le dimissioni di Claudine Gay (v. Gay). Esempi più bonari di coddling sembrano anche i menù vegani e vegetariani richiesti dai contestatori sul campus, e la pretesa che la Columbia continuasse a distribuire cibo e bevande agli occupanti perché “insomma, siamo o no Ivy League” (v. élite).



Dox(x)ing

Indica la divulgazione di informazioni personali a scopo diffamatorio. Si tratta di una pratica ben nota nel mondo dei social media e da qualche tempo oggetto di regolamenti universitari. Nelle proteste, il doxxing è stato usato soprattutto dalle associazioni pro Israele.

Elite

Elite, come le otto università di élite raccolte nella Ivy League, tutte ai primi posti nella classifica mondiale delle migliori università, tutte ricchissime (v. trustees), tutte accesamente coinvolte nelle proteste e tutte nel mirino della destra repubblicana. Fra le motivazioni dell’adesione alle proteste: il moral ground (v.), il piano morale dal quale è doveroso protestare contro oppressione e ingiustizia; l’entitlement, ossia la coscienza acuta dei propri diritti di giovani molto garantiti, che si considerano avanguardia intellettuale del mondo libero; l’effetto dei finanziamenti degli stati del Golfo ai dipartimenti di studi mediorientali delle università di élite (v. Uea). Il New York Times si è chiesto in un articolo perché la stessa istanza morale non sia stata avvertita nelle università afroamericane; la risposta, piuttosto disarmante, è che gli studenti neri, provenienti da famiglie meno agiate, hanno altro a cui pensare.



First amendment

Negli Stati Uniti la libertà di espressione ha uno statuto più solido e un’applicazione più ampia che in Europa. Il Primo emendamento della Costituzione garantisce la libertà di espressione religiosa e politica ben oltre i limiti riconosciuti dai nostri ordinamenti, e in particolare: la libertà di parola e quella della stampa estese allo hate speech, l’incitamento all’odio, e il diritto di riunirsi pacificamente e a chiedere al governo di “correggere i torti” (v. moral ground). Tutti questi aspetti, presenti nelle proteste e nelle controproteste, spiegano perché la repressione, blanda per gli standard della polizia americana e comunque molto criticata dalla stampa progressista, sia stata chiesta e applicata solo nel caso di comportamenti rappresentati come violenti. Come ha tenuto a precisare il portavoce della New York University (v.) dopo l’entrata della polizia nel campus, lo smantellamento dell’accampamento e gli arresti: “Non si tratta di quello che gli studenti hanno potuto dire ma piuttosto della natura della protesta, e della minaccia che questa rappresentava per la nostra comunità”.



Gay

Avendo scartato “genocidio”, di cui il Foglio si è già occupato, ho avuto un po’ di incertezza fra Gay (Claudine), ex rettore di Harvard, afroamericana, e Gilead, il nome della repubblica distopica ultrareligiosa che, nel “Racconto dell’Ancella” di Margaret Atwood, sostituisce gli Stati Uniti. Se avete letto il libro o visto la serie, il legame fra i due lemmi è nella commissione del Congresso che ha sottoposto i rettori di alcune delle principali università di élite (v.), guarda caso tutte donne, a una specie di sacra inquisizione – un “disonesto teatrino politico” secondo la lettera aperta (v. open letter) dei docenti ebrei della Columbia – con l’accusa di favorire l’antisemitismo (v.) nel campus. I verbali di questa audizione, reperibili online e molto interessanti, raccontano in realtà una storia piuttosto diversa. Qualsiasi cosa pensiate di Gay, in seguito massacrata da una oscena character assassination, a me ha dato i brividi l’interrogatorio di “zia” Elise Stefanik (già espulsa dal Comitato consultivo di Harvard nel 2021 per il sostegno dato alla tesi dei brogli elettorali e il rifiuto di riconoscere Joe Biden).



Hamas

Nel corso delle contestazioni si è parlato solo di Hamas, contro e spesso a favore (v. libertà accademica). La menziono solo per sottolineare, per contrasto, l’assenza dell’Olp dal discorso delle proteste, testimonianza dell’eclissi totale della sua popolarità rispetto al tratto social media friendly dell’organizzazione terroristica di Gaza, la cui dimestichezza con l’uso dei media si è dimostrata di gran lunga superiore a quella di Israele.



Israele

Il discorso accademico (v. élite) intorno alla questione israelo-palestinese si svolge oggi prevalentemente all’interno del paradigma dei settler colonial studies (v. Bds). Ignorando storia, contesto e relazioni internazionali, questi descrivono: lo Yishuv, l’insediamento ebraico pre statale, come entità coloniale tesa alla spoliazione dei nativi arabi; la prospettiva dei due stati, sostenuta dalla diplomazia occidentale, come espediente per protrarre lo squilibrio e il conflitto; lo stato unico come concessione della popolazione nativa agli ebrei, in cambio della rinunzia al sionismo (v. zionism). Tale concessione è presente anche nella Carta costitutiva di Hamas del 2017, mentre la precedente prevedeva l’annientamento degli ebrei insieme a quello di Israele. Anche al di fuori delle università, i media americani hanno registrato il declino del sostegno a Israele fra i più giovani, fenomeno dalle cause complesse che mettono in gioco cambiamenti sociali e demografici profondi.



Jenner, Caitlin

Jenner, Caitlin. campione olimpico di decathlon, padre delle sorelle Jenner, padre adottivo delle sorelle Kardashian e personaggio di primo piano del pop stardom statunitense. Presente in questo alfabeto perché, transgender dichiarato dal 2015 e portavoce della comunità, è stata fra le pochissime voci a criticare l’appoggio degli studenti Lgbtq+ al movimento pro Palestina, augurando loro di finire in Iran o a Gaza, paesi violentemente ostili a ogni devianza sessuale. Si potrà obiettare che anche Jenner vive un conflitto simile, dato che si professa repubblicana e vicina a Trump nonostante l’ostilità attiva del partito e dell’ex presidente nei confronti della sua comunità, ma su questo punto le contraddizioni abbondano. In effetti, i gruppi Lgbtq+ hanno vistosamente aderito alle proteste, come questo giornale ha documentato, descrivendo la grande libertà di cui la comunità gode in Israele come pinkwashing, ossia tentativo di coprire misfatti e repressioni con l’appoggio dato a cause libertarie.



King, Martin Luther

L’insegnamento di King è stato citato da due commentatori su posizioni opposte dello spettro politico, il giurista e opinionista cristiano e repubblicano David French e la scrittrice britannica Zadie Smith. Entrambi hanno ricordato il valore dell’opposizione non violenta alla repressione, entrambi hanno rilevato la debole propensione dei manifestanti a pagare personalmente per aver infranto le leggi che contestavano (dopo queste opinioni autorevoli, alcuni contestatori hanno inserito MLK in bibliografia, v. open letter). Ed ecco MLK: “Quando infrangiamo una legge che la nostra coscienza ci dice essere ingiusta, dobbiamo farlo apertamente, dobbiamo farlo con gioia, dobbiamo farlo con amore, dobbiamo farlo civilmente – non incivilmente – e dobbiamo farlo essendo disposti ad accettarne le conseguenze penali”.



Libertà accademica

Tema che ha scaldato gli animi di commentatori, politici e, ovviamente, accademici più ancora della liberazione della Palestina. Questa particolare libertà si pone su un terreno legale più scivoloso della libertà di parola garantita dal First amendment (v.), la quale non si estende alla produzione di insegnamenti, testi e regolamenti universitari. La differenza è nella missione educativa riconosciuta e richiesta agli accademici, per la quale un discorso falso, offensivo o violento tenuto in pubblico non è perseguibile, mentre lo è, o potrebbe esserlo, quello tenuto di fronte o a vantaggio di studenti, a meno che la comunità accademica si accordi per considerarlo accettabile. Chiunque conosca l’accademia sa come questo sia praticamente impossibile. Lo ha mostrato lo scorso anno, in un’università del Minnesota, il licenziamento di una storica dell’arte per aver mostrato un’immagine del profeta Muhammad in un corso sull’iconografia religiosa, seguito dalle dimissioni del rettore che l’aveva licenziata. La libertà d’insegnamento – e la sua censura – sono state dibattute quando il rettore della Columbia (v. Shafik) ha sconfessato uno dei suoi docenti, Joseph Massad, che aveva descritto l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas (v.) come una guerra di liberazione pari alla resistenza europea all’occupazione nazista, come tale accolta dai palestinesi con “giubilo e ammirazione estatica”. Sarebbe stato pure terminato il contratto di un giovane docente per aver dichiarato, all’indomani del 7 ottobre, “sto con Hamas, con Hezbollah e con il Jihad islamico” (tutte considerate organizzazioni terroristiche dal dipartimento di stato americano). Se si può concordare con la censura accademica di queste posizioni, a me sembra comunque pericoloso che la politica (v. Gay) se ne occupi.



Moral vs middle ground

Il First amendment (v.) protegge il diritto illimitato degli studenti, come di ogni altro cittadino, alla protesta pacifica ma non alla disobbedienza civile, e non obbliga le istituzioni private e forse nemmeno quelle pubbliche ad accettare richieste come quelle avanzate dal Bds (v.). Quanto all’obbligo morale dello stato di “correggere i torti” quando questi siano accertati, è chiaro che si tratta di un terreno minato per la politica, più incline invece al middle ground, la via di mezzo. Negli Stati Uniti, le disposizioni note come Leahy Laws vietano di fornire assistenza militare ai paesi stranieri che violino gravemente i diritti umani. E’ questo uno dei punti intorno ai quali si si è svolta la battaglia sulla definizione di “genocidio” applicata all’invasione di Gaza, e quella che ha condotto all’incriminazione congiunta dei capi politici e militari di Hamas e Israele, fortemente criticata dal presidente Biden, che ha cercato di seguire una strettissima via di mezzo (v. White House). Nella definizione del moral ground, alcune illuminanti questioni di principio sono state poste ancora da Zadie Smith. Per esempio: se le proteste si ispirano al dovere etico di esprimere solidarietà ai deboli in ogni situazione sottoposta a un potere oppressivo, perché non riconoscono il disagio degli studenti sionisti, per non parlare dello strazio degli ostaggi? Aggiungo: perché gli studenti non hanno chiesto sanzioni e disinvestimenti anche alle università americane finanziate dagli stati del Golfo che, come gli Emirati (v. UAE), sostengono i guerriglieri arabi nel genocidio – autentico e comprovato – delle etnie non arabe in Darfur? Ma il discorso di Smith è più profondo di un principio di equivalenza retorica quando descrive l’uso di parole-shibboleth, ovvero strumenti di inclusione o esclusione da nicchie di opinione (v. X), che “cancellano e appiattiscono storie incredibilmente intricate” a favore del “piacere atavico di una violenta semplificazione, per quanti sembrano credere che basti definire una cosa in un certo modo perché sia così”.



New York, come la città, l’Università e il Times

Con quasi due milioni di cittadini di origine ebraica nella Grande New York, quasi il 19 per cento della popolazione, la città conta la più numerosa comunità ebraica fuori Israele, la cui impronta sulla vita e le istituzioni culturali cittadine è vasta e profonda. Gli ebrei newyorchesi sono tradizionalmente di orientamento liberale e in maggioranza elettori democratici: nelle ultime elezioni, il 68 per cento avrebbe votato Biden contro il 51 per cento della media nazionale. Più singolare è il fatto che la comunità chassidica, circa un decimo del totale e molto conservatrice, ha votato in massa per il sindaco democratico attuale, l’ex poliziotto afroamericano Eric Adams, attaccato per aver autorizzato l’ingresso della polizia sui campus e avere represso manifestazioni pro Palestina a Brooklyn. Giustificando gli arresti nel campus della New York University, la seconda università cittadina, Adams ha dichiarato che fra gli studenti c’erano “agitatori esterni” ossia “persone che vengono, non c’entrano niente e vogliono solo creare problemi”, (v. rivoluzionari di professione). Quanto al New York Times, tradizionale portavoce dell’opinione pubblica ebraica liberale, è stato di volta in volta accusato di parzialità e pregiudizio pro o contro Israele, il che dimostra una volta di più come in questa storia sia quasi impossibile occupare e mantenere la via di mezzo (v. middle ground).

Open letter

La lettera aperta è lo strumento liturgico con cui l’accademia e i gruppi intellettuali comunicano – fra di loro e con l’esterno – nella ricerca di consenso. Ne citerò due fra le molte che hanno circolato in questi mesi. La prima, firmata dai “Gruppi di solidarietà con la Palestina” di Harvard solo 2 giorni dopo i massacri del 7 ottobre, iniziava così: “Riteniamo il regime israeliano interamente responsabile per la violenza in corso” e proseguiva con le parole d’ordine dei settler colonial studies (prigione all’aperto, regime coloniale, apartheid). All’epoca i firmatari sono stati unanimemente censurati (per l’ex rettore Lawrence Summers, la dichiarazione era “moralmente inaccettabile”) e la lettera ha contribuito a mettere in moto le audizioni, seguite dalle dimissioni del rettore (v. Gay). Nel mutato clima politico di questi giorni, gli stessi firmatari hanno rivendicato l’appello con toni trionfalistici, chiedendo la cancellazione dei provvedimenti contro di loro in cambio della fine dell’accampamento sul quad (v.), vantando di avere ottenuto la revisione degli investimenti (Harvard lo nega) e citando ipocritamente ML King (v.). La seconda lettera, firmata da un gruppo di docenti ebrei di Columbia alla vigilia dell’audizione di Shafik (v.), è invece scritta nel gergo della nuova sinistra americana, ormai obsoleto rispetto ai settler colonial studies e alle richieste del Bds. Negando categoricamente l’esistenza di un problema di antisemitismo nell’università, la lettera sostiene che una “narrazione sionista egemonica di destra” starebbe cercando non solo di soffocare il “discorso sulla storia, la politica la cultura e l’esperienza palestinese” nella cultura americana ma anche, in accordo con “la destra contraria ai Neri, ai Queer e ai migranti”, di “mettere a tacere lo studio critico delle verità storiche”, dove “critico” è sinonimo accademico di “marxista”.



Palestinesi

Con circa 170 mila membri, la comunità palestinese statunitense è, dopo quella cilena, la seconda più vasta fuori del medio oriente e la più varia, essendo formata dalle varie anime della diaspora. I cristiani, oggi quasi scomparsi in Cisgiordania e a Gaza, vi sono ampiamente rappresentati (era cristiano Edward Said, lo è Massad). Dalla comunità del Michigan, una delle più numerose, proviene la democratica Rashida Tlaib, censurata dal Congresso per l’uso dello slogan “dal fiume al mare” (secondo Tlaib: “Un appello speranzoso alla libertà, ai diritti umani e alla coesistenza pacifica, non a morte, distruzione e odio”) e autrice del boicottaggio di Biden alle primarie del Michigan.



Quad

Il “quadrilatero”, lo spazio aperto che, sul campus, è delimitato dagli edifici universitari. Occupato dagli accampamenti dei contestatori e poi sgomberato, è stato descritto dai media favorevoli come uno spazio di pacifica condivisione, da quelli contrari come teatro di slogan, canti e scritte violentemente antisemiti.

Rivoluzionari di professione

Che il sindaco di New York abbia addossato la colpa degli eccessi nelle proteste ad “attori esterni” sembrerebbe un vecchio trucco della repressione poliziesca (secondo Adams, quasi la metà degli arrestati rientrava in questa categoria). E’ però vero, e documentato nelle immagini, che alle proteste hanno partecipato, a vario titolo, giornalisti, curiosi, docenti perlopiù di primo pelo, fuorisede attempati, attivisti musulmani e alcuni rivoluzionari di professione, questi ultimi più determinati e meglio organizzati dei nostri. Fra questi, una ultrasessantenne che si unisce a tutte le proteste nel paese per fornire il suo know-how (per esempio, su come costruire barriere difensive), e l’erede di un milionario, descritto come “anarchico di lungo corso”: è lui che si è visto, in perfetta tenuta da rivoluzionario, sfondare una porta per entrare all’interno della Columbia.



Shafik, Nemat

Shafik, Nemat, detta Minouche, rettore della Columbia messa sotto accusa dalla politica, da destra e da sinistra. Non stiamo parlando dell’ultima arrivata: la baronessa Shafik, egiziana di origine e naturalizzata inglese, è una economista di livello mondiale. E’ stata vicepresidente della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale e della Banca d’Inghilterra prima di accettare incautamente la guida della Columbia, con lo scopo di rassicurare i donatori (v. trustees). Sottoposta alla medesima gogna di Gay (v.), Shafik ha scelto una strada diversa e ha fatto pubblica abiura, scaricando due docenti responsabili di dichiarazioni pro Hamas (v. libertà accademica) e avallando l’ingresso della polizia nel campus. Se questo le ha forse evitato le dimissioni, non le ha risparmiato le critiche da sinistra per avere concesso troppo, da destra per avere fatto ancora troppo poco (v. middle ground).



Trustees and donors

Le università di élite (v.), più ancora delle altre, si sono trovate a dover scegliere fra due istanze spesso contrapposte, quelle degli studenti, le cui rette altissime (in media, 80 mila dollari annui) non bastano a coprire le spese di gestione, e quelle dei donatori, presenti nel Consiglio dei garanti (trustees), i cui finanziamenti sono cruciali per integrare il bilancio e permettere investimenti. Tipicamente, le donazioni sono condizionali e i finanziatori possono ritirarle, come è successo in questi mesi a Harvard, dopo la lettera degli studenti pro palestinesi (v. open letter) o a Penn. Nei consigli sono oggi spesso presenti rappresentanti degli stati del Golfo (v. Uae), cosa che presenta altri rischi come quando, dopo l’assassinio del giornalista dissidente Jamal Kashoggi nel 2018, Harvard ha scelto di rifiutare i finanziamenti sauditi mentre il Mit. è stato costretto ad accettarli, “dopo un’analisi di costi e benefici”, secondo il vicerettore.



Uae (e stati del Golfo)

Presenti da decenni nei consigli di amministrazione di molte università statunitensi, gli stati del Golfo vi contribuiscono con circa 2,5 miliardi di dollari annui. Le finalità di questa presenza sono molteplici: facilitare l’ingresso di studenti nazionali nelle università di élite; influenzare la selezione e la formazione dei tecnici petroliferi; riprodurre nei propri paesi il modello universitario anglosassone (Cornell, per esempio, ha aperto un campus in Qatar, uno dei suoi principali finanziatori); esercitare, da questa posizione, il cosiddetto “soft power”, forse meno reattivo di quello dei finanziatori americani ma altrettanto persuasivo.



Vietnam

Fin dall’inizio delle proteste, nel pubblico progressista americano è scattata ineluttabile l’associazione con la contestazione della guerra del Vietnam, una delle narrazioni mitologiche nazionali. Se v’infastidisce il vecchio amico che si commuove rievocando le assemblee alla Statale di Milano o le proteste a Valle Giulia, evitate di leggere i commenti dei lettori americani ai servizi sulle proteste, in gran parte inneggianti al ritorno dello spirito degli anni ’60. Inutile osservare che l’analogia è fallace, a partire dal fatto che la contestazione traeva forza e convinzione, oltre che dal boom demografico, dal rifiuto della leva obbligatoria, abolita nel 1973.



White House

Travolto dalle conseguenze del 7 ottobre e dell’invasione di Gaza, il presidente Biden si è sforzato a lungo e invano di mantenere il middle ground (v.), cercando di conciliare la difesa del diritto di Israele a difendersi e la condanna dell’antisemitismo con l’affermazione della libertà di espressione e l’appello ai princìpi umanitari nella condotta della guerra, se questo fosse possibile. Anche se non c’è motivo di dubitare della sincera convinzione di Biden, è bene ricordare che tutti i punti affermati hanno una base legale. Oltre a quelli già citati (il First amendment e il Titolo VI del Civil Rights Act), il diritto di Israele a difendersi è protetto da una legislazione apposita volta a garantirne la “superiorità militare qualitativa” rispetto ai vicini mediorientali, per cui, al culmine delle proteste, Biden ha potuto sospendere provvisoriamente un invio di bombe pesanti ma non il flusso di armi in generale. Quando, con la SMQ di Israele sono entrate in conflitto le Leahy Laws già evocate, la posizione della presidenza è sembrata dipendere da definizioni (cosa è genocidio, quante morti sono troppe, ecc.). Nonostante l’impegno, Biden ha scontentato ampie fasce del suo elettorato o almeno quelle più vocali, come i rappresentanti arabi e/o musulmani e soprattutto gli under 30, suoi grandi elettori del 2020, che oggi, se i sondaggi recenti sono affidabili, voterebbero in maggioranza per Trump.



X (e i social media)

Le proteste sono state intensamente instagrammate e tiktokkate sulla pubblica piazza virtuale. Su X la laconicità del mezzo ha enfatizzato il tratto binario del social-pensiero, dove per definirsi e schierarsi basta inserire una delle parole-chiave, mentre TikTok è stata la nuova piattaforma di un dibattito senza interlocutori e senza contraddittorio. Come è stato notato, i social media hanno appiattito dissenso e protesta trasformandoli in meme effimeri, mentre la parola persuasiva richiede di occupare uno spazio fisico.



Zionism

Con la zeta per ragioni di alfabeto, è il sionismo, l’ideologia nazionalista di Israele, della cui lunghissima e tortuosa storia sarebbe troppo lungo parlare. Si tratta dello shibboleth di tutti gli shibboleth, la parola-chiave suprema che ha deciso l’inclusione o l’esclusione dai due principali schieramenti. Sottoposti all’accusa di antisemitismo (v.), tutti i gruppi e le organizzazioni pro Palestina si sono dichiarati contro il sionismo ma non contro gli ebrei. Ovviamente, accettare gli ebrei ma non il sionismo, come ha fatto Hamas nella revisione della sua Carta fondamentale, significa negare l’esistenza stessa dello stato di Israele.

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