Il dilemma sconcertante tra sconfiggere Hamas o salvare gli ostaggi

La questione delle persone in mano ai terroristi dovrebbe essere preservata da un uso politico cinico, da un modo strumentale di porla. Invece ecco la grottesca politicizzazione dei rapiti per sbarazzarsi di Bibi

Gli ostaggi sono nelle mani di Hamas, che li ha rapiti per farsene scudo difensivo, insieme con i civili palestinesi, e per dividere Israele e cercare la sua vittoria, la vittoria della barbarie sulla civiltà. Non devono finire nelle mani del politeismo senza princìpi. Per questo la questione degli ostaggi dovrebbe essere preservata da un uso politico cinico, da un modo strumentale di porla, e da parte di chiunque, nel campo che resta della civiltà. In particolare ora che il mondo sembra essersi girato contro Israele, ora che si è imbastita una specie di Onu-Unrwa internazionale pronta a invocare la fine della guerra contro i predoni e carcerieri dei civili israeliani e di altre nazionalità rinchiusi da molti mesi nei tunnel, decimati da fame malattie e miserie di una guerra alla quale erano estranei. Se è un segno di umanità fremere per la loro sorte e battersi per il loro rientro a casa, almeno di quelli sopravvissuti all’inferno, è un segno di disumanizzazione superiore a qualunque altro usare gli ostaggi, il tema del riscatto degli ostaggi, per ottenere le elezioni in Israele, per vincere le elezioni contro Trump in America, per scopi politici di consenso così tipici di imbelli classi dirigenti, specie in Europa ma non solo.

Si è visto il senatore democratico Chuck Schumer, campione della causa israeliana fino a ieri, fischiato dai manifestanti nell’Israel day di New York mentre ripeteva come una cinica filastrocca, per cavarsela, lui che si è mostrato preoccupato di licenziare il governo di guerra israeliano piuttosto che di vincere la guerra contro i suoi nemici, lo slogan sacrosanto “bring them home”, riportateli a casa.

Quel disagio, quei fischi, non vengono da mancanza di pietà verso i dannati dei tunnel e del 7 ottobre, al contrario, vengono per l’appunto dallo sconcerto di fronte all’uso politico degli ostaggi. I manifestanti ebrei e pro Israele di New York, presumibilmente e legittimamente in maggioranza ostili al governo Netanyahu come tutta l’opinione liberal americana e altrove, hanno espresso repulsione per l’idea che la necessaria azione per riavere gli ostaggi possa essere usata contro la linea di smantellamento di Hamas, che è l’obiettivo dichiarato di tutta Israele, del gabinetto di guerra e di unità nazionale, di Netanyahu come di Gallant e Gantz ed Eisenkot: la lotta di potere negli Stati Uniti e in Israele può scandalizzare solo gli stolti e i tiepidi di cuore, fa parte del quadro, ma non si pone fine alla pressione militare, non si proclama farsescamente e grottescamente la fine della guerra per ragioni umanitarie che mascherano la voglia elettorale e il desiderio di sbarazzarsi di un premier israeliano usurato e carico di ambiguità oggettive ma tuttora a capo di un paese in lotta per la propria sopravvivenza e unità.

Finora gli ostaggi recuperati dal buco in cui i predoni li hanno gettati devono la loro salvezza al sacrificio di un esercito popolare impegnato in una durissima e tremenda guerra di difesa, ai soldati morti e feriti nei combattimenti a Gaza, alla fermezza che stava dietro alla tregua umanitaria dei mesi scorsi. Vedremo se tutta questa ammuina intorno al piano Biden, o Biden-Netanyahu, al quale si sono subito agganciati coloro (molti) che non credono nella saggia fermezza di tutta Israele, e tutti coloro che hanno fatto a gara nell’uso spietato della pietà per gli ostaggi, sarà tale da offrire a Hamas la vittoria che cerca brandendo la pelle dei suoi prigionieri, dei civili sottratti al massacro solo per sottoporli al nuovo massacro della cattività: c’è per fortuna da dubitarne. Il governo e il paese che combattono per riaverli si impegnano per una tregua ma non cedono sui loro obiettivi che prevedono comunque una Gaza senza Hamas, free Gaza from Hamas, prima di una eventuale fine dei combattimenti, di un ritiro delle truppe e di elezioni che diranno se i cittadini vogliono liberarsi del loro governo e del primo ministro una volta affermate le loro ragioni decisive e a guerra vinta.

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  • Giuliano Ferrara
    Fondatore
  • “Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.

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