Davigo senza appello

“Opera diffamatoria” contro Ardita, “fughe di notizie senza precedenti”: una violazione “tutt’altro che formale, ma sostanziale”. L’ex pm di Mani Pulite raccontato dalla Corte d’appello di Brescia nelle motivazioni della condanna

L’imputato Piercamillo Davigo “si è determinato ad una sovraesposizione personale del tutto singolare, non necessitata e che, per quanto ponderata, si è risolta di fatto in una serie di irrituali e illecite confidenze, che poi hanno sortito quell’effetto finale di una fuga di notizie senza eguali precedenti”.

Le motivazioni della Corte di Appello di Brescia sono più dure della sentenza, che ha confermato la condanna in primo grado dello scorso anno con cui l’ex pm di Mani pulite è stato condannato a un anno e tre mesi per rivelazione del segreto d’ufficio. Nel senso che i giudici di appello hanno fatto ulteriormente a pezzi, dal punto di vista logico e di diritto le ricostruzioni di Davigo a giustificazione del suo comportamento in merito alla divulgazione dei verbali di Piero Amara coperti da segreto.

La vicenda, molto intricata, risale al 2020. In sintesi: il pm Paolo Storari informa Davigo, allora membro del Csm, delle dichiarazioni, all’interno delle inchieste a Milano sull’Eni, dell’avvocato Amara su una loggia massonica che coinvolge importanti personalità, tra cui molti magistrati. Storari ritiene che la procura di Milano non proceda con l’inchiesta. Davigo lo convince a farsi dare quei verbali, dicendo al pm che ai consiglieri del Csm “il segreto non è opponibile”, e anziché custodire il segreto ne rivela il contenuto a svariate persone, membri del Csm e non. Finché questi verbali non arrivano ai giornali e poi diventano di dominio pubblico.

Le motivazioni del ricorso demolite sono diverse. In prima battuta, Davigo e i suoi avvocati sostenevano che siccome il reato di rivelazione di segreto d’ufficio si sarebbe perfezionato con il passaggio di verbali da Storari a Davigo, il comportamento successivo (ovvero la divulgazione seguente di Davigo) non sarebbe punibile. Soprattutto perché, tra l’altro, Storari è stato assolto per la sua condotta. Questa motivazione del ricorso è peraltro incoerente con le giustificazioni che Davigo ha più volte addotto al suo comportamento: l’ex pm, infatti, ha ripetutamente dichiarato che ha rivelato il contenuto di quegli atti ad altri magistrati e pubblici ufficiali perché loro erano tenuti a mantenere il segreto. Nel ricorso, invece, sostiene che non è più così.

In ogni caso, i giudici di Brescia sono di tutt’altro avviso. In primo luogo, la condotta di Davigo – che svela notizie riservate a molte persone – “determina la realizzazione di altra e ulteriore condotta di rivelazione distinta” da quella di Storari. Ma, inoltre, in questo caso specifico, risulta “in modo incontrovertibile… che il dott. Davigo ha indotto il dott. Storari a rivelargli le propalazioni dell’avv. Amara” sulla loggia Ungheria dicendogli, in maniera del tutto infondata, che a lui non era opponibile il segreto.

Su questo punto, il più usato da Davigo nei talk-show, i giudici dicono che la tesi secondo cui al singolo membro del Csm non sarebbe opponibile il segreto investigativo, in quanto non è opponibile all’organo Csm, “poggia su una forzatura interpretativa che, per quanto suggestiva, è da ritenersi erronea”.

In primo luogo perché il Csm non ha “alcun accesso incondizionato e immediato agli atti di indagine”, ma anche perché le circolari del Csm spiegano che le notizie di reato e le altre circostanze che riguardano magistrati e che potrebbero essere rilevanti per il Csm devono essere comunicate dai procuratori generali e dai procuratori della Repubblica “con plico riservato al Comitato di presidenza” del Csm. Questo perché le procure hanno la facoltà di rifiutare la consegna al Csm opponendo il segreto, di omettere o ritardare la trasmissione degli atti per la tutela delle indagini o di terzi. In ogni caso, il passaggio avviene con procedure formali e codificate: “Giammai può avvenire attraverso quelle comunicazioni riservate e confidenziali, di cui tutti i testi hanno parlato”.

Non è pertanto vero, come ha sempre sostenuto Davigo, che si è comportato in maniera irrituale per tutelare il segreto e far ritornare l’inchiesta “sui binari della legalità”: la violazione “è stata tutt’altro che formale, ma sostanziale – scrivono i giudici nella sentenza di appello – in quanto con l’agire sotto traccia è stato impedito alla Procura di Milano di poter opporre il segreto investigativo”. E non conta il fatto che gli atti gli fossero stati consegnati proprio da un pm della procura di Milano come Storari, perché era solo un contitolare del procedimento (insieme alla dott.ssa Pedio) e “non aveva legittimazione alcuna” a consegnare atti secretati.

I giudici censurano anche la scarsa trasparenza di Davigo, che non si è rivolto al Comitato di presidenza nella sua collegialità, ma si è relazionato “partitamente con i singoli componenti, tacendo agli uni quello che era stato detto all’altro”. Per giunta, l’azione di Davigo si è estesa ben oltre il consiglio di presidenza e i membri del Csm, coinvolgendo ad esempio un politico del M5s come Nicola Morra, ma ha “operato in modo tale da insinuare il dubbio” nei suoi interlocutori sull’appartenenza alla presunta loggia del magistrato Sebastiano Ardita, suo ex amico poi diventato rivale “andando a lederne l’onore e il prestigio”.

Questo aspetto non è solo rilevante per Ardita, ma per la sua funzione di consigliere del Csm. L’opera diffamatoria di Davigo, attraverso “un’accusa gravissima” e in grado di “minare la credibilità”, ha infatti comportato l’isolamento di Ardita nel Csm e, quindi, l’alterazione del funzionamento di un organo costituzionale attraverso notizie coperte da segreto.

Come più volte scritto su questo giornale negli ultimi anni, al di là della sorte personale di Davigo e del risarcimento a cui ha diritto Ardita, è questo l’aspetto pubblico più importante della sentenza di Brescia: evitare che nel Csm sia consentito e istituzionalizzato il dossieraggio.

“Un avvocato le sentenze non le commenta, se non le condivide le impugna – dice Davide Steccanella, difensore di Davigo –. L’ultima parola spetterà alla Corte di cassazione”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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