Ritratto di Claudio Borghi, il proto Vannacci

Fenomenologia del senatore no euro che ha ipotizzato le dimissioni del presidente della Repubblica. Non un passante per la Lega, anzi: più salviniano di Salvini, pop e pulp, fin dal primo tour in camper al Nord

“Ho detto una banalità che straconfermo”. Conferma e non abiura, come forse qualcuno nel suo partito avrebbe voluto, il senatore leghista Claudio Borghi, colui che il 2 giugno, su X, ha scritto le parole di commento al discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che da quarantotto ore creano non poco scompiglio, e cioè: “E’ la Festa della Repubblica Italiana e si consacra la sovranità della nostra nazione. Se il Presidente pensa davvero che la sovranità sia dell’Unione europea invece che dell’Italia, per coerenza dovrebbe dimettersi, perché la sua funzione non avrebbe più senso”. Parole che Matteo Salvini, leader della Lega e vicepremier, prima ha mezzo-avallato con un arzigogolo (“nessuna polemica col presidente della Repubblica, oggi è la festa degli italiani e la sovranità italiana viene prima di ogni appartenenza”) e poi ha cercato di nascondere con un altro arzigogolo (“nessuna polemica con Mattarella, Mattarella ha il rispetto mio e della Lega”).

Ma lui, Borghi, candidato alle Europee, su Radio 24 e su Facebook aveva già ribadito il concetto, anche sostenuto dalle parole del co-candidato e generale Roberto Vannacci, e aveva invitato a votare per lui, per Vannacci e per Susanna Ceccardi, tanto più che non è certo un passante, Borghi, per la Lega, come nell’imbarazzo qualcuno ha sperato si potesse pensare, anzi: Borghi sta al salvinismo arrembante degli ultimi dieci anni come la mela sta all’albero, e cioè come candidato, consigliere (ai tempi del governo gialloverde) e ideologo (pamphlet “Basta euro”).

E infatti va dritto per la sua strada, Borghi, mentre Vannacci gli fa da coro greco (“la sovranità è nazionale e non si cede”) e mentre attorno al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si addensano i retroscena: vorrà andarsene, dopo simili uscite, ci si domanda? Fatto sta che le uscite di Borghi sono state inutilmente a destra sminuite (il presidente del Senato Ignazio La Russa ha detto che la polemica è stata “smontata” da Salvini e che lui si fida di Salvini) e a sinistra condannate in blocco, come pure nei media, dove si segnala però anche lo “strano caso” di Tommaso Cerno, ex senatore eletto con il Pd e ora direttore del Tempo, che ieri, a “L’aria che tira”, su La7, diceva, a proposito di Borghi: “Tutta questa Europa può sembrare eccessiva, non mi sembra ci sia nulla di strano nel dire questo…È chiaro che quella di Borghi è una provocazione, ma se non si può più dire questo allora non andiamo neanche a votare, facciamo come bisogna fare e che sia finita”.

Intanto lui, Borghi, specificava: non ritratto. Invano, dalla Lega, si cercava di ridimensionare parole e indirettamente anche ruolo informale del senatore, già consigliere economico del leader. Niente, Borghi in persona ribadiva: non considero Mattarella un leader dell’opposizione, questo no, ma se “uno il giorno della festa della Repubblica, il giorno della consacrazione della sovranità italiana, dice che si consacra la sovranità europea…”. E tutti smentivano anche l’ipotetica rabbia della premier Giorgia Meloni contro Salvini, con tanto di ipotetica telefonata a Salvini (smentita pure quella). Insomma, continuava a parlare imperterrito solo lui, Borghi, uno che d’altronde le cose che pensa non le nasconde, anzi. E ieri infatti, su Facebook, raccomandava: “Sabato e domenica facciamo vedere a tutti, con la forza della democrazia, che la sovranità dev’essere del popolo italiano, non dell’Unione europea. Davanti a un popolo che vota le polemiche spariranno”. Programma minimo: “Più Italia, meno Ue, no Oms, no Mes, no Pnrr2, stra no all’esercito europeo, basta armi a Ucraina, più amicizia con Trump, stra no alle tasse sulla casa”.



Non più tardi di un mese fa, Borghi postava orgoglioso l’altro concetto: togliamo l’obbligo di issare la bandiera della Ue sui palazzi pubblici. E sempre sui social, croce e delizia da un decennio, quando non si fa fotografare con i balneari a Marina di Grosseto, diffonde l’idea insita nella proposta di legge sua e dell’altro ideologo del leghismo economico Alberto Bagnai, ora deputato: su ogni cartello e targa realizzata con fondi della Ue ci dovrà essere scritto che “i fondi Ue sono in realtà soldi nostri, da trent’anni l’Italia paga ogni anno all’Unione europea più di quello che riceve”. C’è anche il mantra su X, sempre a proposito di Europa e Italia: “Ripetete cento volte con me… le limitazioni di sovranità previste dall’articolo 11 della Costituzione non sono cessioni di sovranità”.



Passante? Non proprio. Mai stato un passante per Salvini, Borghi, colui che, nel terribile stallo alla messicana post-elezioni 2018, in giorni in cui non si capiva chi mandare al governo neanche dopo essere precipitati sulla soluzione giallo-verde, veniva immortalato con la mano sulla fronte (e con il senno del poi s’immagina la fatica) al tavolo tecnico ristretto grillino-leghista nei prodromi del governo Conte I. Si faceva il suo nome per uno dei dicasteri economici, e proprio in virtù del suo essere uomo legato a doppio filo al salvinismo, fin da quando Borghi – ex operatore di Borsa, ex ragazzo prodigio e studente lavoratore, poi approdato in Deutsche Bank e in Merril Lynch, collezionista d’arte, giornalista e docente, milanese con antenati sul lago di Como – reduce delle ospitate bellicose a “La gabbia”, il programma di Pierluigi Paragone che ha fatto da culla a varie personalità della stagione populista, si era messo a girare con e per Salvini, ma in tempi in cui Salvini non aveva percentuali “landslide”. Girando girando, l’attuale senatore aveva percorso in camper tutto il Nord, in vista delle Europee del 2014. Non eletto, arrivava alla Camera nel 2018, eletto comunque dopo essersi scontrato a perdere con l’ex ministro delle Finanze dem Piercarlo Padoan, vincitore del collegio toscano. E dalla Camera Borghi immaginava i minibot, per poi farsi dissidente interno sul referendum costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari, al grido di “voto no: dal punto di vista dei cittadini, perdere i loro rappresentanti non li farà stare meglio”.



Con i basettoni, gli occhialetti da milanese-bene, la moglie organizzatrice di eventi e matrimoni e il culto della vecchia lira, sull’allora twitter Borghi si divertiva a “defollouare” e riammettere i critici liberali, con accuse ridondanti di alto tradimento, e a tuonare con frasi tra il pop e il pulp contro l’ex premier Mario Monti, suo bersaglio storico, e contro ipotetici cercatori di pubblicità per conto di altri partiti, sbalordendo il piccolo elettore grillino sbilanciato a sinistra che aveva sperato in un governo con il Pd e si era ritrovato al governo con Salvini. Coccolava allora anche lessicalmente, Borghi, le monete non euro (tra cui le “sterlinette”) e dava di “cialtrona” alla sinistra seguace del presidente francese Emmanuel Macron. D’altronde qualche giorno fa, intervistato da Carmelo Caruso su questo giornale, aveva dato di bombaroli a Macron e a Stoltenberg, definendo intanto Vannacci “un lord” dopo le uscite del Papa sui gay. Non ci sono alternative dopo Salvini, era la certezza, granitica almeno quando l’altra: “Giorgetti è dal paleolitico che non vuole fare il frontman”.

Per non dire dell’Ucraina, che a suo avviso farebbe bene ad “accontentarsi del pareggio”. Se si riavvolge il nastro, si ritrova il Borghi del 2014, candidato che, con idee no-euro, fa schizzare la Lega nel voto. Se lo si riavvolge ancora di più, lo si ritrova bambino, seduto alla scrivania del padre che gli spiega i rudimenti di finanza: con due azioni compri la matita che è sul tavolo, con cento azioni il tavolo. Sono passati più di quarant’anni, e il cinquantaquattrenne Borghi la Borsa l’ha lasciata da tempo. Il Parlamento italiano lo lascerebbe, se eletto e se si crea una diversa maggioranza, preceduto dal suo slogan, quello della Lega: “Più Italia, meno Europa”. C’è stato un tempo in cui, agli albori giallo-verdi, Borghi si divertiva a dire che lui, da destra, veicolava idee “che più di sinistra non si può: piena occupazione, spesa e deficit, nazionalizzazioni”. Ora invece, in campagna elettorale nell’amata Maremma, dice che Salvini la pensa come lui, e viceversa.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l’Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l’hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E’ nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.

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