La Nato a trentadue ha gli obiettivi più chiari

La Svezia si aggiunge all’Alleanza atlantica e mentre si fanno i conti con la difesa europea, si smontano le frottole russe sull’allargamento a est

Duecento anni di neutralità sono ormai alle nostre spalle, ha detto il premier svedese, Ulf Kristersson, accogliendo festoso e sollevato il voto parlamentare e la firma presidenziale dell’Ungheria che sanciscono formalmente l’allargamento della Nato a 32 paesi. “E’ un passo decisivo che prenderemo molto sul serio – ha detto Kristersson – ma è anche un passo naturale”, ha aggiunto, utilizzando una parola perfetta: con una minaccia come la Russia, non possiamo che cambiare e trasformarci per rendere efficace una difesa che non è soltanto necessaria, ma è naturale: è la prevalenza della legge del più forte a non essere nella natura di questo occidente alleato militarmente. La Svezia è il 32esimo paese a entrare nella Nato, la sua integrazione era già un fatto, mancavano i riottosi ungheresi – che quest’anno festeggiano il venticinquesimo compleanno dal loro ingresso nella Nato, con i loro musi lunghi – e sono iniziate le esercitazioni a nord della Norvegia che si tengono ogni due anni e che prima si chiamavano “Cold Response”, ma da adesso sono state rinominate “Nordic Response”: ci sono oltre ai norvegesi quattromila soldati finlandesi (la Finlandia è entrata nell’aprile dello scorso anno) e quattromilacinquecento soldati svedesi. Le esercitazioni vanno avanti fino al 15 marzo, arriveranno contingenti anche da altri paesi (compresa l’Italia), sono partecipatissime perché l’aggressione russa in Ucraina è stata ed è la più pericolosa dalla Seconda guerra mondiale. In questo 2024 elettorale in cui i fondi a Kyiv arrivano con più difficoltà – ma l’esercito e l’intelligence militare di Kyiv stanno ottenendo successi mai abbastanza raccontati sul mare e nel cielo – il compimento dell’allargamento della Nato potrebbe essere una delle rare buone notizie, ed è anche per questo che non si deve ricadere nel tranello della “provocazione”.


Cinque minuti con Kuleba. Siamo entrati nel terzo anno dell’attacco totale contro l’Ucraina, nell’undicesimo della guerra di rosicchiamento contro la Crimea le regioni del Donbas, e ancora si cercano giustificazioni per l’invasione voluta da Putin, e nel cercare di dividere le colpe, così da rendere il capo del Cremlino meno responsabile, ci sono frottole ripetute più di altre. Un esempio? La Russia si è sentita minacciata dall’allargamento a est della Nato. Non è vero e il ministro degli Esteri dell’Ucraina, Dmytro Kuleba, ha spiegato in meno di cinque minuti perché non c’è stata nessuna minaccia, nessuna provocazione. E’ partito dal 2014, anno in cui Kyiv era per legge un paese neutrale. Come vedete, prima che Putin iniziasse la sua guerra lo spazio della neutralità era molto più ampio. Dopo l’annessione illegittima della Crimea e poi l’inizio del conflitto nelle regioni di Donetsk e Luhansk, l’Ucraina non poté fare altro che smettere di pensarsi neutrale: doveva sopravvivere. La frottola che viene spesso ripetuta con puntiglio professorale riguarda la famosa promessa fatta a Mosca che la Nato non si sarebbe mai allargata a est. Bene, dice Kuleba, e chi avrebbe fatto questa promessa? Dove? Qualcuno un po’ più sofisticato di altri dirà che la promessa è stata fatta a Mikhail Gorbaciov nel 1990 durante i negoziati per la riunificazione della Germania. Bene, guardiamo i fatti e le date: siamo nell’estate del 1990, esisteva ancora il Patto di Varsavia e nessuno parlava della sua dissoluzione, non era un tema. Il Patto e poi l’Unione sovietica sono collassati l’anno dopo in modo rapido, inaspettato, quindi nell’estate del 1990 l’idea di una Nato estesa a est non esisteva, perché si dava per scontato che a est ci fosse l’altra alleanza, quella del Patto di Varsavia, appunto. Fu proprio Gorbaciov a smentire la storia della promessa. E poi, spiega il ministro, aderire alla Nato è un processo complesso, e sono i paesi a chiedere di fare parte dell’Alleanza, non è certo l’Alleanza a forzare i paesi. Il Cremlino sa benissimo come funziona l’adesione, sa benissimo che non c’è stata nessuna promessa, ma finché c’è chi gli crede perché rinunciare a una bugia che funziona così bene, toglie lo sgradito abito di carnefice e tesse addosso un costume da vittima?

L’11 marzo la bandiera svedese verrà issata al quartier generale della Nato. Gli ungheresi, tra i musi lunghi, hanno tolto il veto


La mappa di Medvedev. Dal 2014, Vladimir Putin non fa che parlare di storia, nei suoi discorsi, scritti, nelle sue conferenze stampa sembra vivisezionarla fino a cavare fuori la sua versione, quella della vittima tradita da Kyiv, tradita dall’occidente. La storia è una passione condivisa dai suoi funzionari, amici, alleati, ma c’è chi invece propende più per la geografia, come Dmitri Medvedev, l’ex presidente passato dall’interpretare il ruolo del liberale del Cremlino a quello del falco anti occidentale vestito in abiti nordcoreani. Lunedì Medvedev è salito su un palco per dire che è ora di finirla con la storia dell’Ucraina indipendente, Kyiv è Russia. L’ex presidente ha illustrato con una mappa quale sarà il futuro dell’Ucraina. Immaginate la scena, lui, alto un metro e sessanta, sovrastato da una mappa enorme che raffigura il futuro dei confini dell’Ucraina secondo Mosca. Per Medvedev, dell’Ucraina rimarrebbe un non nulla, soltanto la parte attorno a Kyiv – da questa mappa si evince che Medvedev abbia rinunciato ad arrivare con i carri armati alla capitale – tutta la parte orientale e meridionale dell’Ucraina diventerebbero russe. E poi ci son le sorprese: assalito dalla furia antiucraina, Medvedev immagina di spartire l’Ucraina con Polonia, Romania e Ungheria, tutti paesi dell’Alleanza atlantica: secondo un’antica storiella che circolava all’inizio della guerra Putin complottava con Varsavia e Budapest per dividersi l’Ucraina. Da questa mappa si evince un altro elemento: la Nato così sarebbe ancora più estesa e a quanto pare Medvedev non si sente così tanto spaventato, l’importante è far sparire l’Ucraina.

Un missile russo a Odessa ha colpito a 200 metri da dove si trovavano Zelensky e il premier greco Mitsotakis


I trumpiani. Steve Bannon, intervistato da Viviana Mazza sul Corriere della Sera, ha detto: se Donald Trump torna al potere e se gli alleati della Nato non danno almeno il 2 per cento del loro pil, ci sarà una “massiccia ristrutturazione”, perché in un’alleanza ognuno deve fare la sua parte. Bannon è ancora l’architetto del trumpismo, in questo suo sequel, dice che i “tecnocrati della Nato”, ma pure gli europei e il “partito di Davos” fanno bene a preoccuparsi, perché Trump non è loro amico, e anzi fosse per lui, chiedere il 2 per cento non è nemmeno sufficiente: dovete pagare gli arretrati, dice Bannon, e smetterla di “alzare la posta” in Ucraina “senza metterci i soldi”. Gli americani non metteranno più un penny, gli europei si attrezzassero da soli, ma Bannon sa che da solo non è, perché dice parole gentili su Matteo Salvini (e non su Giorgia Meloni che fa il gioco della Nato e di Bruxelles) e naturalmente sul pupillo europeo, il premier ungherese Viktor Orbán. Gli europei si stanno attrezzando anche se sappiamo che non è una cosa facile per un continente che ha sempre fatto affidamento sull’alleato americano: per la prima volta nella sua storia, gli alleati europei (in media) raggiungeranno il contributo del 2 per cento; dal 2022, c’è stato un aumento annuale pari a 10 miliardi di dollari, e per quest’anno il contributo europeo sarà di 380 miliardi di dollari. Poi ci sono i progetti per rinnovare l’industria della difesa, dare una forma alla strategia difensiva comune e dotarsi anche, forse, di un commissario dedicato. I paesi membri stanno capendo a ritmi diversi quanto la sicurezza europea sia una priorità imminente e la guerra in Ucraina lo dimostra ogni giorno: ieri c’è stato un attacco russo contro la città di Odessa e c’è stata un’esplosione a duecento metri dal convoglio in cui si trovavano Zelensky e il premier greco Mitsotakis. Sappiamo che quella per la difesa comune è una strada accidentata a causa delle divergenze interne soprattutto sul finanziamento della difesa comune, ma la collaborazione transatlantica non è arenata. I paesi Ue acquistano al momento il 68 per cento delle armi dall’America, ma questo è dovuto anche a un problema europeo, cioè la non trasparenza sugli arsenali del continente. Nel progetto per la Difesa comune presentato dal commissario Tierry Breton, c’è l’idea di un Foreign Military Sales europeo, modellato su quello americano che permetterà di rendere gli approvvigionamenti e le produzioni più efficienti.


L’11 marzo è prevista la cerimonia con cui la bandiera svedese sarà issata davanti al quartier generale della Nato a Bruxelles. il 12 marzo, invece, non sarà soltanto l’Ungheria a festeggiare il venticinque anni della sua alleanza transatlantica. Difficile che Budapest festeggi, ma gli altri che hanno lo stesso compleanno sono pronti a celebrare i venticinque anni che hanno cambiato loro la vita. Sono la Polonia e la Repubblica ceca, altri due paesi del Patto di Varsavia che non appena si trovarono liberi da ogni accordo iniziarono una corsa forsennata e faticosa fatta di riforme, spese e cambiamenti nel nome di una sicurezza: tenere Mosca lontana, il più possibile. Come dice Kuleba: vi si siete mai chiesti come mai tutti i paesi che erano stati legati alla Russia erano così disperatamente desiderosi di entrare nella Nato?

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