A due anni dall’invasione di Putin in Ucraina è ora di un secondo risveglio per l’Ue. C’è un piano serio, ma anche molte divisioni
Per favore non chiedete all’Ucraina quando finirà la guerra, chiedete a voi stessi perché Putin è ancora in grado di continuarla”, ha detto il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, concludendo il suo intervento alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, e la risposta a questa domanda, che è nota, ha ghiacciato i tantissimi leader che lo stavano ascoltando. L’European Council on Foreign relations ha pubblicato uno studio sulla guerra contro l’Ucraina e le elezioni europee che riassume, con i dati, i toni mesti di molte conversazioni e incontri a Monaco. Viene rilevata la contraddizione al fondo dell’opinione pubblica del nostro continente: gli europei sono pessimisti sulle possibilità che l’Ucraina possa vincere la guerra, ma allo stesso tempo non sono dell’umore di un appeasement nei confronti di Vladimir Putin, ancor meno dopo che è morto Alexei Navalny in un penitenziario russo. I greci e gli italiani sono i più propensi a dire che l’Ucraina e la Russia devono raggiungere un compromesso, che significa fare concessioni a Putin, mentre il 31 per cento degli ungheresi, il dato più alto, dice che la Russia vincerà la guerra. Se gli svedesi sono i più convinti del fatto che l’Ucraina debba riprendersi tutti i suoi territori (seguiti da portoghesi e polacchi), ungheresi, greci e italiani dicono che Kyiv va convinta a negoziare con Mosca. Poi c’è il fattore Trump: in generale, nessuno si augura il ritorno dell’ex presidente, ma allo stesso tempo – scrivono gli autori dello studio – “gli europei non si sentono particolarmente eroici” e pensano che se gli americani rivedranno il loro sostegno all’Ucraina, anche gli europei dovranno adattarsi. Questo dato cozza con la volontà dei leader europei che invece, di fronte alle minacce di Trump contro la Nato e al suo diktat antiucraino al Congresso, hanno deciso di investire sulla propria difesa, così come hanno aumentato già negli scorsi anni il loro contributo alla Nato. Le decisioni europee, per quanto rallentate, sono andate in una direzione univoca nei confronti dell’Ucraina: sono stati aperti i negoziati di adesione all’Ue, sono stati stanziati i soldi per la ricostruzione, il sostegno a lungo termine non è stato messo in discussione. Poi però c’è un fronte militare da difendere e non soltanto bisogna mettere l’Ucraina nelle condizioni di farlo, ma l’Europa deve dotarsi di un’industria e di una strategia che permettano di combattere una guerra contro una minaccia che è globale: Vladimir Putin. Gli esperti dell’European Council on Foreign Relations suggeriscono di riorganizzare il dibattito attorno al concetto di “pace durevole”, che è quello che funziona di più anche nelle urne in vista delle elezioni di giugno. I leader europei ridisegnano l’assetto della difesa europea, ma con visioni non sempre combacianti.
Il patto Macron-von der Leyen. Le difficoltà che sta attraversando l’Ucraina al fronte e la prospettiva di un potenziale ritorno di Trump alla Casa Bianca hanno confermato la tesi di Emmanuel Macron: l’Ue deve essere autonoma e indipendente sul piano della difesa. Anche i paesi dell’est, tradizionalmente attaccati all’ombrello di protezione americano, se ne sono accorti. Loro avevano avuto ragione sulla Russia di Vladimir Putin. Ma i francesi non hanno torto quando sostengono – come ha fatto il commissario Thierry Breton – che “non possiamo giocarci a testa o croce la nostra sicurezza ogni quattro anni” a seconda di come vanno le elezioni americane. Scaltra, Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione, ci ha visto un’occasione per assicurarsi una riconferma. Il 13 febbraio è andata a Parigi a incontrare Macron, poco prima di annunciare la sua ricandidatura con il Partito popolare europeo. All’Eliseo Macron e von der Leyen hanno stretto un patto. Il presidente francese sosterrà il secondo mandato della tedesca. In cambio von der Leyen plasmerà una Commissione franco-tedesca e farà della Difesa europea la sua priorità, compresa la nomina di un commissario alla Difesa. Due giorni dopo, in un’intervista al Financial Times, von der Leyen ha spiegato che sulla sicurezza “dobbiamo spendere di più, dobbiamo spendere meglio, dobbiamo spendere europeo” perché “il mondo è diventato più duro”. Lo stesso messaggio è stato ripetuto all’infinito dalla presidente della Commissione durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco.
“Non possiamo giocarci a testa o croce la nostra sicurezza ogni quattro anni” a seconda delle elezioni americane
Le differenze. D’istinto von der Leyen non è una grande fan della sovranità europea immaginata da Macron. Come ogni tedesco, rimane attaccata agli Stati Uniti e alla Nato. Ai suoi occhi, la difesa europea può solo essere complementare, non indipendente dall’America. Ma ci sono le elezioni e così per il prossimo mandato – se von der Leyen sarà effettivamente confermata – la Commissione avrà un nuovo marchio di fabbrica. Addio “European Green deal”. Benvenuto “European Security Deal”. Il problema è che uno slogan non fa una politica. E sui dettagli di come costruire la Difesa europea ci sono ancora profonde divergenze tra gli stati membri. Un esempio è fornito dalle trattative in corso per la riforma della European Peace Facility, lo strumento con cui l’Ue finanzia le forniture di armi all’Ucraina. L’Alto rappresentante, Josep Borrell, ha proposto una dotazione annuale di 5 miliardi e regole più snelle per acquisti congiunti di munizioni e di armi da inviare a Kyiv. La Germania sta bloccando un accordo perché paga più di tutti gli altri per la European Peace Facility: il 25 per cento, che alcuni paesi usano per ammodernare i loro arsenali. Gli 1,2 miliardi di euro che Berlino versa all’Ue si sommano agli 8 miliardi di aiuti militari bilaterali per Kyiv. Il governo di Olaf Scholz vuole almeno scontare una parte delle forniture bilaterali. Ma, oltre alla Germania, c’è un altro ostacolo. La Francia di Macron insiste per imporre il “Buy European” alla Europea Peace Facility. I francesi la chiamano “preferenza comunitaria”: gli unici acquisti che potrebbero essere finanziati dall’Ue, dovrebbero essere di armi e munizioni prodotte da imprese europee, o al massimo da imprese che operano in Europa. Lo scorso anno lo scontro sul “Buy European” voluto dai francesi aveva ritardato di tre mesi il via libera al piano per la fornitura di un milione di munizioni all’Ucraina entro la fine di marzo di quest’anno. Alla fine è stata inserita la clausola sulla preferenza comunitaria. Ma, alla scadenza, solo metà delle munizioni (500 mila proiettili) sarà effettivamente fornita all’esercito ucraino. La Repubblica ceca ha trovato sul mercato mondiale 800 mila proiettili 155 mm e 120 mm, ma è costretta a fare una colletta di fund raising con Danimarca, Paesi Bassi e Canada perché – per le regole attuali sulla preferenza comunitaria volute dalla Francia – l’Ue non può pagare. Sulla riforma della European Peace Facility “stiamo ripetendo lo stesso errore” fatto sulle munizioni, ci ha detto un diplomatico. Non solo i negoziati su questi dettagli ritardano l’approvazione dei 5 miliardi, ma viste le limitate capacità di produzione nell’Ue rischiano di rivelarsi controproducenti.
La tirchieria. La questione di come finanziare gli investimenti nella difesa riemerge regolarmente. A parole i leader sono pronti a spendere molto. Nei fatti si dimostrano dei gran taccagni. Vale per l’Ucraina. La Francia ha annunciato la fornitura di 78 cannoni Caesar, ma ne finanzierà solo 12. Altri 6 saranno comprati direttamente da Kyiv. Per il resto la Francia chiede agli altri alleati di fare una colletta, anche se la somma è decisamente bassa (285 milioni di euro). Quando si tratta dell’Ue è ancora peggio. Nella revisione del quadro finanziario pluriennale (il bilancio 2021-27 dell’Ue), i capi di stato e di governo dei ventisette hanno accettato di aumentare gli stanziamenti per il Fondo europeo di difesa di appena 1,5 miliardi di euro per i prossimi quattro anni. Thierry Breton ha evocato necessità molto più ampie: un fondo da 100 miliardi. Ma il commissario è ben consapevole che non ci sono margini politici. La Commissione ha chiarito che quella di Breton era una stima, non una proposta. Cioè una sparata. La premier estone, Kaja Kallas, ripete che i 100 miliardi dovrebbero essere finanziati con gli Eurobond sul modello di quanto fatto con il Recovery fund post Covid. “Le obbligazioni emesse dai singoli paesi sono troppo poco. Gli Eurobond possono avere un impatto molto più grande”, ha detto Kallas. L’ex presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, aveva fatto campagna nella stessa direzione, spiegando a ogni vertice europeo (o quasi) che la difesa è un bene pubblico europeo e l’unico modo per finanziarla in modo adeguato dopo l’aggressione della Russia è attraverso il debito comune. Macron ha dato il suo sostegno. Ma per la Germania e i paesi frugali il debito comune è una linea rossa. Il Recovery fund non può essere ripetuto una seconda volta. Nemmeno di fronte a rischi esistenziali: è quello che pensa anche von der Leyen, che durante la conferenza stampa in cui ha annunciato la sua candidatura ha di fatto escluso l’ipotesi Eurobond dicendo che si deve rimanere “dentro il bilancio europeo”.
La riforma dell’European Peace Facility, l’“all in” per Kyiv e i nomi (con preferenza) per il supercommissario
Tutto quel che abbiamo. “Scusate amici, il materiale militare in Europa c’è. Non è solo una questione di produzione: Abbiamo armi, munizioni, sistemi di difesa aerea, che non usiamo ancora. Devono essere ceduti all’Ucraina”, ha detto la premier danese Mette Frederiksen, aprendo la strada a quello che è stato definito l’“all in” sull’Ucraina. “I russi fanno l’all in per distruggere l’Ucraina e chissà chi altro”, ha detto il ministro degli Esteri lituano Gabrielius Landsbergis: “Dobbiamo farlo anche noi, non possiamo avere mezze misure. Se l’Ucraina cade, noi saremo i prossimi. Putin non ha intenzione di fermarsi e non saremo in grado di fermarlo”. Il governo svedese, che ha incassato il sospirato assenso dell’Ungheria per il suo ingresso nella Nato, ha annunciato il pacchetto di aiuti militari più importante dato finora all’Ucraina, circa 633 milioni di euro in munizioni, imbarcazioni, armi subacquee, missili anticarro, granate e sistemi antiaerei. “Il motivo per cui continuiamo a sostenere l’Ucraina è di umanità e decenza. La Russia ha iniziato una guerra illegale, non provocata e ingiustificabile”, ha detto il ministro della Difesa, Pal Jonson: “L’Ucraina non difende solo la propria libertà, ma quella di tutta l’Europa. La Svezia resterà al fianco dell’Ucraina per tutto il tempo necessario”.
Nel piano per una nuova difesa europea, è previsto anche un commissario della Difesa, che è già stato soprannominato “super” perché avrà il compito di coordinare l’industria della difesa europea, mestiere complicato. Prima dell’autunno, se si incastrano tutte le ipotesi precedenti, non sapremo chi è, ma ci sono già liste di nomi che s’accorciano e si allungano a seconda dei giorni e che si intrecciano alla lista dei possibili successori di Jens Stoltenberg, segretario della Nato che deve lasciare il suo incarico. Ora, per quest’ultimo posto, dove si sono già consumate grandi delusioni (chiedere all’inglese Ben Wallace per i chiarimenti), in questo momento il favorito sembra Mark Rutte, che è ancora premier olandese perché come sempre il governo dei Paesi bassi è di lunghissima gestazione, ma che è in uscita. Sui media è dato quasi per certo, e le sue ultime frasi su Trump sono state prese come una conferma: “Dovremmo smetterla di lamentarci e tormentarci per il ritorno di Trump. E’ una scelta degli americani, io non sono americano e non voto in America. Dobbiamo danzare con chi ci ritroviamo sulla pista da ballo”. Per il supercommissario invece siamo a livello di chiacchiere: il ministro degli Esteri della Polonia, Radek Sikorski, è stato dipinto dai giornali polacchi come “l’inevitabile”, chi meglio di lui per un incarico del genere? Il lituano Landsbergis ha un fan club molto attivo sui social, che lui coccola con grazia, come dimostra uno dei suoi ultimi thread che parte da una sua foto in bianco nero: mi avete detto in molti di avermi visto triste a Monaco, è vero, vi spiego perché. Anche la premier estone Kallas è molto amata e rispettata, mentre il ministro degli Esteri lettone Arturs Krišjanis Karinš dice a tutti quelli che incontra: sarei adattissimo come supercommissario. Noi abbiamo un debole per Kallas, che è anche l’unica a non essere del Ppe e quindi, se dovesse essere confermata von der Leyen, avrebbe più chance per ottenere un incarico nuovo e rilevante. Ce la immaginiamo perfetta al fianco di Zelensky, che ha invitato Trump ad andare insieme sul fronte ucraino, dove ogni centimetro di terra viene difeso con la vita, così almeno può capire a cosa servono i soldi che non vuole più dare all’Ucraina, per ideologia e per dispetto.