Il semestre europeo e le elezioni anticipate hanno stravolto piani e calcoli. I malumori di Bruxelles, le scelte dei candidati e una sorpresa scatenata
La democrazia non è mai un problema”, ha detto Pedro Sánchez per rassicurare gli europei che, quando il premier socialista spagnolo ha annunciato a sorpresa le elezioni anticipate per il 23 luglio all’indomani di una brutta sconfitta alle amministrative, avevano chiesto: e noi? Il primo luglio la Spagna prende la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea per il secondo semestre di quest’anno e dopo appena tre settimane potrebbe avere un nuovo premier con una nuova maggioranza – è una possibilità molto concreta: il Partito popolare ora all’opposizione è dato per vincente in tutti gli sgangherati sondaggi. Naturalmente il Pp, guidato da Alberto Núñez Feijóo, avrà parecchi grattacapi nella formazione di un governo, dovendo fare i conti con la destra estrema di Vox, e i fattori da tenere in considerazione sono molti più di quelli che si vedono in superficie, ma certo definire le priorità spagnole per l’Ue ora, nel mezzo della campagna elettorale e con una leadership uscente, non è un lavoro né semplice né del tutto credibile. Sánchez ha detto che non ci saranno troppe turbolenze in queste prime settimane, e gli europei riempiono i tempi dell’attesa facendo calcoli, attività che si farà sempre più intensa nei prossimi mesi: i popolari spagnoli in ascesa sono un tassello molto rilevante per il Partito popolare europeo che ha un peso specifico calante e che conta sulle elezioni in Spagna e in autunno in Polonia per capire a chi dovrà rivolgersi per racimolare quella trentina di seggi che gli servono per mantenere il proprio potere. Siamo andate a vedere come si presenta la Spagna all’appuntamento europeo e a quello elettorale, svelando qualche equivoco.
Una situazione inusuale. Iniziare una presidenza di turno del Consiglio dell’Ue nel pieno di una campagna elettorale è quantomeno inusuale. Inizialmente Sánchez aveva pensato di fare della presidenza spagnola una lunga passerella internazionale per dimostrare la sua caratura da statista in vista del voto che era previsto a dicembre. Ora i piani sono stati modificati, anche se al premier spagnolo resta comunque qualche occasione per mostrarsi al fianco di altri leader europei e internazionali. La prossima settimana è prevista la visita a Madrid del collegio dei commissari. Il premier uscente accoglierà con tutti gli onori Ursula von der Leyen. Il 17 e 18 luglio a Bruxelles ci sarà il vertice Eu-Celac che permetterà a Sánchez di mostrarsi al fianco dei leader europei e sudamericani. Ma a Bruxelles rimane un certo malumore per la mossa di anticipare il voto. Sánchez ha deciso di rinviare da luglio a settembre il discorso di presentazione del programma della presidenza spagnola davanti al Parlamento europeo. Se perderà la sua scommessa elettorale, il semestre sarà destabilizzato dall’arrivo di una squadra che non ha alcuna esperienza europea. La presidenza deve negoziare accordi su decine di provvedimenti, compresi la riforma del Patto di stabilità e il nuovo Patto migratorio. Un nuovo primo ministro e un nuovo governo – con o senza Vox dentro – potrebbe compromettere il lavoro dell’Ue per i prossimi sei mesi.
L’equivoco tecnico. Il bipartitismo in Spagna è in buona salute: la somma dei voti dei popolari e dei socialisti sarà probabilmente superiore rispetto al 2019 in un orizzonte politico in cui ci sono solo quattro partiti nazionali, due “grandi”, il Pp e il Psoe, e due “medi”, Vox e Sumar (l’ultima volta c’erano anche i centristi di Ciudadanos, che nel frattempo si sono vaporizzati). Ma la legge elettorale spagnola, che è su base provinciale, oltre a premiare i partiti locali, e quindi anche i gruppi indipendentisti, rende determinanti i risultati dei partiti medi, che sono gli inevitabili alleati di domani dei partiti grandi (Vox per il Pp e Sumar per il Psoe). Paradossalmente, questi risultati sono ancora più determinanti ora che i due partiti grandi sembrano in grado di recuperare un po’ dei consensi ceduti ai due partiti medi negli ultimi anni. Se in una provincia medio-piccola, per esempio, un partito grande sottrae “troppo” consenso al suo possibile alleato fino a fargli perdere l’unico seggio a cui potrebbe aspirare lì – e cioè, per calare l’esempio nella realtà, se il Pp sottrae troppo consenso a Vox o se il Psoe sottrae troppo consenso a Sumar in una provincia medio-piccola – non è affatto detto che quel seggio vada a quel partito grande così vorace. Anzi, la cosa più probabile è che quel seggio vada all’alleato dell’altro partito grande. Se si moltiplica questo meccanismo per tutte le tante provincie medio-piccole della Spagna si capisce perché per uno dei due pesi medi, Vox e Sumar, prendere il 12 per cento invece del 15 per cento a livello nazionale può voler dire perdere la metà dei seggi in Parlamento o giù di lì. E si può immaginare che cosa questo comporti per i partiti grandi che dell’appoggio dei partiti medi hanno assoluto bisogno per sognare una possibile maggioranza.
L’equivoco Feijóo. Il presidente del Pp, Alberto Núñez Feijóo, alla sua prima prova elettorale nazionale come candidato premier e leader di partito, e in qualità di quasi certo vincitore delle politiche almeno per quanto riguarda il piazzamento (ottenere una maggioranza è un altro paio di maniche, ma è probabile che Feijóo trovi anche quella con l’aiuto di Vox), dovrebbe essere circondato dall’aura della next big thing, del grande innovatore, del tedoforo di una brillante idea per il futuro del paese. E invece il leader popolare sembra già una controfigura dell’ex premier Mariano Rajoy, galiziano come lui. Sembra uno che fa rotolare la palla sulla sua inevitabile traiettoria – la vittoria elettorale, in questo caso. Uno che, quando fa comodo, finge di essere morto. Uno che lascia che i vari capataz locali del partito facciano un po’ a modo loro e pazienza se lo spettacolo che ne deriva è a tratti pietoso. Proprio in queste settimane di campagna elettorale, in alcune regioni e in molti comuni, in conseguenza di quel voto amministrativo di fine maggio che ha poi innescato le politiche anticipate, il Pp sta stringendo (o non stringendo) accordi con Vox con criteri che sarebbe generoso definire contraddittori. Ma sembra che Feijóo, che fra meno di un mese dovrà fare la stessa cosa a Madrid, non abbia alcuna linea da indicare ai suoi. Né niente da dire al riguardo.
L’equivoco Sánchez. Il premier uscente Pedro Sánchez, ammaccato dalla brutta sconfitta alle amministrative, sprovvisto di un appoggio convinto da parte dei big socialisti, incapace per mesi di far valere le cose buone fatte dal suo governo perché troppo impegnato a giustificarsi di fronte alle accuse di aver accettato l’appoggio dei “comunisti” (Podemos), dei “golpisti” (gli indipendentisti catalani di Esquerra republicana) e dei “terroristi” (i baschi di EH Bildu), ridotto a parametro negativo da parte degli avversari (“O Sánchez o España” è lo slogan piuttosto efficace inventato dalla presidente della Regione di Madrid, la popolare Isabel Díaz Ayuso), dovrebbe essere molto abbacchiato. E tale in effetti è sembrato fino a poco tempo fa, ma poi ha capito di poter fare la campagna elettorale da solo, visto che Feijóo preferisce tenere la linea del pesce in barile. E si è esaltato. Disinvolto, sicuro di sé, bello come un attore del cinematografo e con una voce perfetta per qualsiasi radiodramma, in tv appare trasfigurato, con la faccia del vincente. Forse non recupererà voti, ma a guardarlo pare che si stia divertendo molto.
L’equivoco Abascal. Il leader dei sovranisti di Vox, Santiago Abascal, ha inventato in Spagna quell’estrema destra che prima non c’era o che, per meglio dire, si nascondeva buona buona nel pancione del Pp. E ora, dopo qualche anno di crescenti successi elettorali, ha deciso che vuole contare davvero. Entrare nei governi locali e in quello nazionale. Gestire potere. Occupare posti. Incidere davvero, al di là degli slogan. Ha la forza di farlo perché il suo consenso sta crescendo ulteriormente? No, anzi: per la prima volta l’appeal elettorale di Vox sta conoscendo un calo e un certo numero dei suoi elettori sta tornando all’ovile popolare. Si sta preparando la strada moderando i toni e mostrandosi più istituzionale? No, anzi: Vox ostenta la sua natura estremista e nelle Regioni e nei Comuni in cui ha appena ottenuto qualche poltrona importante ha imposto personaggi controversi e ideologicamente molto esposti. Eppure, per quanto imbarazzo questo possa causare nel Pp, ad Abascal sta riuscendo proprio ora l’ingresso nelle istituzioni. E, a quanto pare, non gli viene per ora richiesto di cambiarsi le scarpe infangate da oppositore antisistema prima di iniziare a calcare i velluti del potere.
L’equivoco Díaz. La nuova creatura politica della vicepremier e ministra del Lavoro Yolanda Díaz, una piattaforma che aveva l’ambizione di far coabitare sotto lo stesso tetto tutto quello che c’è a sinistra dei socialisti, è un progetto riuscito a metà. Perché, se è vero che la Díaz ha raggruppato qualche decina di sigle diverse facendo onore al nome della sua lista Sumar (che significa “riunire”), la contrattazione con Podemos, in cui il movimento degli ex indignados ha tirato la corda fino all’ultimo secondo utile prima di accettare di far parte del gruppo, ha avvolto questo nuovo astro della politica spagnola in una foschia di inimicizie, diffidenze, irritazioni. Altro che “Sumar”, insomma. Tanto più che i sondaggi attribuiscono alla lista unitaria un risultato inferiore a quello ottenuto in solitaria da Podemos nel 2019. E certo non aiuta il fatto che l’iniziativa-bandiera della sinistra radicale in questa legislatura, e cioè la legge del “solo sì è sì” per punire con più severità la violenza contro le donne, sia stata confezionata così male che Sánchez se ne sta scusando in ogni sede. Ci sono quindi le premesse perché nelle urne Sumar si riveli un disastro assoluto? No. Perché poteva andare anche molto peggio. Perché la figura della Díaz è ancora abbastanza immacolata. E perché la sinistra radicale è uscita, almeno nella percezione collettiva, dal cono d’ombra dell’estremismo. E non solo perché Sánchez alla trasmissione tv El Hormiguero ha detto, ottenendo un grande applauso: “Con todo el cariño e con tutto il rispetto, io non paragonerei Yolanda Díaz con Santiago Abascal”. Ma anche perché per interpretare il ruolo del “cattivo” anche la destra non indica Sumar bensì gli indipendentisti baschi di EH Bildu, che in questa legislatura non hanno mai negato i loro cinque ghiotti voti a Sánchez.
L’equivoco EH Bildu. Il partito indipendentista basco, che è l’erede di quello che con una pigra ma abbastanza precisa espressione veniva definito come “il braccio politico” dell’organizzazione terroristica Eta, ormai disciolta da anni, è diventato governista. Spinto da notevole consenso e da ottimi sondaggi nei Paesi Baschi e pur non avendo fatto più di tanto ammenda dei suoi “silenzi”, chiamiamoli così, durante decenni di terrorismo costellati di centinaia di morti, Bildu negli ultimi anni è stato tra i più fedeli e meno ricattatori fornitori di voti a Sánchez nel Parlamento spagnolo. Per il Pp e per molti elettori accettare questo appoggio è stato un tradimento aberrante nei confronti delle vittime dell’Eta, molte delle quali, peraltro, erano del Psoe. Ma l’ex premier socialista José Luis Rodríguez Zapatero ha consegnato al País un’analisi molto diversa: “Credo che sia un gran risultato per la Spagna che Bildu abbia un atteggiamento partecipativo nelle istituzioni. I suoi elettori possono così constatare che questa democrazia non li esclude né li escluderà se rispettano le leggi”.
In questi ultimi giorni un ruolo di primo piano lo sta giocando, un po’ a sorpresa, proprio Zapatero. L’ex premier, nella già citata superintervista con il País, che il giornale ha intitolato “Zapatero scatenato”, sta dandosi un gran da fare per serrare le fila. Dice che la narrazione ostile al premier che va sotto il nome di “antisanchismo” è frutto di un grosso equivoco, appunto, secondo cui il premier ha solo guidato un governicchio claudicante, basato su alleanze un po’ vergognose. Per Zapatero questo equivoco è una bolla e lui vuole farla scoppiare. Perché, e lo dice con una specie di “oh, ragazzi” bersaniano in difesa della “ditta”, secondo lui del premier uscente si può pensare ciò che si vuole ma quelli che volevano un governo di sinistra che facesse cose di sinistra devono riconoscere che Sánchez – proprio come aveva fatto lui, Zapatero – ha svolto invece un gran lavoro. Certo, legare il “sanchismo” allo “zapaterismo” non è la ricetta migliore per conquistare consensi al centro. Ma, visto che quei consensi, al momento, non sembrano comunque attingibili, l’iniezione identitaria zapateriana può essere utile al Psoe per recuperare qualche astenuto e rafforzare il suo elettorato naturale. O, alla peggio, per accompagnare il partito verso le urne con un po’ più di fiducia – o almeno con un sorriso, scatenatissimo.
(hanno collaborato Guido De Franceschi e David Carretta)