Oggi c’è il Consiglio per stanziare i fondi a Kyiv e testare la forza europea contro i veti anti ucraini. Una lettera, un paio di piani e il ricordo di Delors
Non possiamo non mantenere le nostre promesse agli ucraini, hanno scritto alcuni leader europei in un lettera pubblicata sul Financial Times: “La consegna di armi e munizioni all’Ucraina da parte degli stati membri dell’Unione europea è più importante che mai”. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la premier danese Mette Frederiksen, il premier della Repubblica ceca Petr Fiala, la premier estone Kaja Kallas e il premier olandese Mark Rutte scrivono di aver già collaborato per garantire le donazioni necessarie all’Ucraina per respingere l’aggressione russa – iniziata 23 mesi fa – consegnando carri armati, obici, munizioni di artiglieria e droni da ricognizione: “Continueremo a esplorare tutte le opzioni e a invitare alleati e partner a cofinanziare queste iniziative – scrivono – La nostra capacità di continuare a sostenere la difesa dell’Ucraina, sia durante l’inverno sia a lungo termine, è decisiva. In realtà, è una questione di sicurezza comune europea, e per le coraggiose donne e gli uomini delle forze armate ucraine è una questione di vita o di morte”.
I cinque leader fanno un appello ai loro colleghi per un atto di responsabilità vitale per gli ucraini e per l’occidente, da fare subito e con decisione perché la sconfitta dell’Ucraina ha conseguenze a lungo termine enormi per tutti, perché l’Europa ha una “responsabilità speciale” nei confronti degli ucraini, perché “il nostro futuro” dipende dalla determinazione di oggi. Fin dalla pubblicazione della lettera, è iniziato il chiacchiericcio sugli assenti tra i firmatari – la Francia di Emmanuel Macron in particolare, ma per quel che ci riguarda anche l’Italia di Giorgia Meloni – così come quello sul cancelliere tedesco, in prima fila da molto tempo per tamponare le disunità europee ma allo stesso tempo ancora cauto nell’invio di armi rilevanti come sono i sistemi missilistici Taurus. Si tende sempre a sottolineare le contraddizioni e le assenze, ma questo richiamo alla responsabilità – alla vigilia di un vertice straordinario per i finanziamenti a Kyiv e con l’America tenuta in ostaggio da un Partito repubblicano sempre più anti ucraino (o indifferente alle sorti degli ucraini, che è comunque grave) – è potente oltre che necessario. Non si tratta di firmare un assegno, ma di decidere del proprio futuro, insieme agli ucraini.
Il potere “corroso” di Putin. Un’altra grande assente dei dibattiti degli ultimi mesi è, per quanto possa suonare paradossale, la Russia. Ci perdiamo in indiscrezioni sulla solidità della leadership ucraina, sulla chiacchierata rivalità (occhio alle fonti di questo filone) tra il presidente Volodymyr Zelensky e il generale Valeri Zaluzhny, così come sulla democrazia cosiddetta “sospesa” dell’Ucraina a causa delle elezioni rimandate (che sfrontatezza ci vuole a pretendere dagli ucraini anche di organizzare un voto, quando parte del paese è occupata, ci sono i soldati al fronte e ogni assembramento elettorale è un bersaglio facilissimo per gli indiscriminati missili russi), ma sulla Russia si dice sempre meno. Per fortuna ci ha pensato William Burns, il direttore della Cia, a mettere in chiaro un po’ di cose. In un saggio pubblicato su Foreign Affairs, Burns dice che il potere di Vladimir Putin si è “silenziosamente corroso”, che il presidente russo ha segnato il suo punto contro l’alleato-rivale Evgeni Prigozhin, ma che le critiche sulla morte dell’ex leader della Wagner “non scompariranno presto”: “Per buona parte dell’élite russa, la domanda non era tanto se l’imperatore fosse nudo ma perché ci avesse messo così tanto a vestirsi”, scrive Burns, e insiste sul fatto che la proiezione di forza che Putin fa all’estero fa parte delle sue menzogne: ci sono le debolezze economiche “civili” della Russia, che ha investito sull’economia di guerra e non su altro, e c’è il fatto che la Russia stia diventando “vassallo della Cina”. Se la controffensiva ucraina non è andata come si sperava, le truppe russe sono avanzate di pochi, devastati chilometri, con perdite enormi e “le punzecchiature”, come le chiama Burns, degli ucraini in territorio russo, nella Crimea occupata dai russi e nel Mar Nero hanno inflitto grandi perdite ai mezzi di Mosca. E hanno fatto altro: Burns dice che non c’è stato un momento tanto florido per costruire una rete di collaboratori dentro la Russia: la Cia ha pubblicato dei video in cui spiega come far arrivare informazioni sullo stato del potere russo attraverso alcuni canali sicuri sul web, “non sprecheremo questa opportunità”, scrive Burns, perché la disaffezione nei confronti di Putin esiste, e cresce. E, continua, “mantenere il flusso di armi verso l’Ucraina metterà Kyiv in una posizione più forte se emergerà l’opportunità di negoziati seri; offre la possibilità di garantire una vittoria a lungo termine per l’Ucraina e una sconfitta strategica per la Russia; così l’Ucraina potrebbe salvaguardare la sua sovranità e ricostruirsi, mentre la Russia sarebbe lasciata ad affrontare i costi duraturi della follia di Putin”.
“Questo è un momento crocevia in cui si stabilisce se cresciamo e che tipo di attore internazionale vogliamo essere”
Il potere di veto di Orbán. Il Consiglio europeo straordinario che si apre oggi a Bruxelles doveva essere dedicato all’Ucraina e invece si è trasformato in un vertice su Viktor Orbán. Il premier ungherese non ha fatto passi indietro sul suo veto che paralizza non soltanto un pacchetto di aiuti finanziari da 50 miliardi per Kyiv, ma anche la revisione del bilancio 2021-27 dell’Ue (il cosiddetto quadro finanziario pluriennale). Dentro ci sono risorse in più per le politiche migratorie e la politica estera (10 miliardi di euro), più flessibilità nell’utilizzo dei fondi di coesione (per investirli nel green-tech senza bisogno di cofinanziamenti nazionali) e per far fronte all’aumento degli interessi sul debito contratto da NextGenerationEu. La parola più usata da diplomatici e funzionari negli ultimi giorni a Bruxelles è “esasperazione”. L’Ungheria non si è mossa di un millimetro e continua a fare richieste: un veto annuale sullo stanziamento degli aiuti all’Ucraina, lo spostamento al 2028 della scadenza per attuare il Pnrr e una deroga sul meccanismo per far fronte all’aumento degli interessi. Per ragioni politiche e giuridiche, sono richieste “inaccettabili”, ci ha detto una fonte dell’Ue. Molti ritengono che Orbán abbia preso in ostaggio l’Ucraina e la revisione del bilancio per costringere la Commissione a sbloccare 21 miliardi di euro congelati per le violazioni dello stato di diritto. A dicembre, il ricatto aveva funzionato. Appena prima del Consiglio europeo per decidere il via libera ai negoziati di adesione con l’Ucraina, di fronte alla minaccia di veto di Orbán, la Commissione aveva deciso di sbloccare 10 miliardi. Allora il premier ungherese era uscito dalla sala consentendo agli altri 26 di aprire l’Europa a Kyiv. Questa volta la concessione offerta è solamente simbolica: “Il Consiglio europeo terrà un dibattito ogni anno sull’attuazione della Facility (per l’Ucraina), con l’obiettivo di dare indicazioni sull’approccio dell’Ue sulla situazione che deriva dalla guerra di aggressione contro l’Ucraina”. Lo stallo invece è reale. “Questo è un momento crocevia in cui si stabilisce se cresciamo e che tipo di attore internazionale vogliamo essere”, ci ha detto un diplomatico coinvolto nei negoziati. L’Ucraina è considerata “esistenziale” da diversi stati membri. Per quasi tutti è “un interesse strategico”. A parte Orbán, nessun altro è disposto a fare le barricate, anche quando ha espresso stanchezza o critiche per il sostegno all’Ucraina. Come Robert Fico, il premier slovacco che a Bratislava dice all’Ucraina di cedere i territori, e poi firma accordi di cooperazione con il governo di Volodymyr Zelensky promettendo di dire “sì” al pacchetto di aiuti da 50 miliardi. Fico sa di non potersi permettere di trovarsi a ventisei contro uno, o venticinque contro due, perché tanto è la stessa cosa. La Slovacchia, come l’Ungheria, dipende dai fondi dell’Ue e dagli investimenti che attrae grazie al mercato interno.
La corda tesa. Orbán sta tirando “troppo la corda” e “rischia di fare una brutta fine”, spiega il diplomatico. Sempre più stati membri vogliono passare dalle parole ai fatti sulla procedura dell’articolo 7 per violazione dello stato di diritto, privando l’Ungheria del diritto di voto (e dei fondi dell’Ue). Un funzionario del Consiglio europeo ha scritto un piano – trapelato sulla stampa – che alcuni hanno ribattezzato “trattamento Berlusconi”: gli altri leader dovrebbero dire pubblicamente che non intendono più far arrivare le tasse dei loro contribuenti a Budapest, allontanando gli investitori e spingendo i mercati a intervenire contro il fiorino e il debito ungherese. Eppure fino all’ultimo si continua a negoziare. Sarà Orbán a decidere l’esito del vertice. L’ultima concessione che i ventisei sono pronti a fare è un “freno d’emergenza” sugli aiuti all’Ucraina, che avrebbe soltanto implicazioni simboliche e nessuna conseguenza concreta. Un ambasciatore ieri ha citato Gramsci e “l’ottimismo della volontà” di trovare una soluzione a ventisette. “Poi si è ricordato di come è andata a finire”, confessa un suo collega.
L’Ucraina è considerata “esistenziale” da diversi stati. Per quasi tutti è “un interesse strategico”. A parte Orbán
Il “buy european”. Orbán permettendo, il Consiglio europeo di oggi almeno dovrebbe ribadire la volontà di continuare a fornire “sostegno militare tempestivo, prevedibile e sostenuto” all’Ucraina. I leader dei ventisette daranno la benedizione a una riforma della European Peace Facility, lo strumento dell’Ue che serve a finanziare le forniture di armi, per passare dal trasferimento di stock agli acquisti congiunti per Kyiv. Ma, sottotraccia, anche su questo ci sono divisioni. Non c’è ancora accordo sulla dotazione da 5 miliardi per il fondo speciale per le armi all’Ucraina. E sta per ripetersi lo scontro sul “buy european”, che ha già frenato altre iniziative dell’Ue, come il piano per fornire un milione di munizioni. Da una parte c’è la Francia, con Emmanuel Macron che fa grandi discorsi sulla difesa e la sovranità europee, senza dover dipendere dagli Stati Uniti. “Dobbiamo essere pronti ad agire, difendere e sostenere l’Ucraina qualsiasi cosa accada e qualsiasi siano le future decisioni degli Stati Uniti”, ha detto il presidente francese martedì in Svezia. “La questione della preferenza comunitaria per noi è totalmente legata ai criteri di eleggibilità della European Peace Facility”, ha fatto sapere l’Eliseo. Tradotto: i soldi dell’Ue devono servire a comprare armi prodotte in Europa o dagli europei, non ad acquistare negli Stati Uniti o in Corea del sud. E’ la visione di lungo periodo, che tuttavia non è compatibile con le esigenze immediate dell’Ucraina. Nella lettera al Financial Times, c’è una frase che non va nella direzione del “buy european”: per armare l’Ucraina “i paesi partner potrebbero giocare un ruolo importante, così come essere invitati a unirsi al nostro sforzo collettivo”. Sul piano per le munizioni e sugli altri piani legati agli armamenti, i ventisette hanno trascorso mesi a discutere, scontrarsi e negoziare per o contro il “buy european” negli acquisti congiunti. Alla fine la Francia l’ha avuta vinta. Ma i risultati del piano di munizioni sono sotto gli occhi di tutti: alla scadenza della fine di marzo saranno consegnati non un milione di proiettili, ma cinquecentomila. Malgrado il fatto che Macron abbia parlato di economia di guerra già nel giugno del 2022, la Francia attualmente può produrre appena tremila munizioni al mese per l’Ucraina. François Heisbourg dell’International Institute for Strategic Studies ha fatto notare amareggiato che equivale al numero di munizioni che l’Ucraina ha sparato in media in 14 ore nel 2023.
Alla vigilia della resa dei conti con i veti e gli affaticati, Bruxelles ha celebrato il suo architetto, Jacques Delors, morto un mese fa. Le preoccupazioni si sono sospese per lasciare spazio al ricordo di un politico lungimirante, che ha costruito questo progetto unico al mondo e che lo ha fatto anche abbastanza solido da non essere travolto dagli egoismi nazionali. Sono stati raccontati aneddoti, sulla rete sono comparsi i video di quando l’Europa era piccolina, doveva imparare a diventare grande e stava per sviluppare quella sua energia di attrazione che ha cambiato per sempre gli equilibri del continente. E’ stato bello ricordare che obiettivi grandi sanno conquistare i leader responsabili dell’Europa.
(ha collaborato David Carretta)