Gli ucraini stanno riformando il loro paese mentre combattono una guerra esistenziale e per questo non vanno lasciati soli, ha detto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, dando il parere positivo all’inizio dei colloqui per l’adesione dell’Ucraina all’Ue. E’ il secondo “sì” che viene dato a Kyiv dopo quello che cambiò tutto nel giugno dello scorso anno – tutto per l’Ucraina, ma tutto anche per l’Europa che ha ritrovato lo slancio per allargarsi cioè per mettere in pratica la propria missione che è quella di attrarre e accogliere paesi che scelgono i valori liberali e democratici. Volodymyr Zelensky aveva chiesto l’abbraccio europeo sin dall’inizio dell’invasione da parte della Russia e ieri ha detto: dobbiamo essere in Europa, e ce lo meritiamo perché difendiamo i valori europei e intanto rifacciamo un’Ucraina nuova, proiettata verso il futuro. Ha un che di simbolico e di potente il fatto che la Rivoluzione della Dignità nel 2014 nascesse dalla negazione da parte dell’allora governo di Kyiv di un accordo commerciale che avvicinava il paese all’Ue e che oggi questa promessa sia l’architrave del rilancio della missione stessa dell’Ue.
Ucraina, Moldavia, Georgia, Balcani. “L’allargamento è una politica vitale per l’Unione europea”, ha spiegato von der Leyen, presentando la raccomandazione per aprire i negoziati di adesione per l’Ucraina e la Moldavia: “Completare la nostra Unione è la chiamata della storia” e “ha una forte logica economica e geopolitica”. L’aggressione della Russia ha cambiato tutti i parametri con cui l’Ue si relazionava con il suo vicinato. Bruxelles all’improvviso si è accorta che le influenze esterne attorno ai suoi confini non sono soltanto un fastidio, ma parte di una strategia per danneggiare l’Ue. La decisione del giugno del 2022 di concedere lo status di candidato a Ucraina e Moldavia è stata senza precedenti in termini di determinazione e rapidità. Altrettanto rapida è stata la raccomandazione di aprire i negoziati di adesione per i due paesi. Se il Consiglio europeo di dicembre darà luce verde, “invieremo i nostri funzionari a Kyiv e Chisinau la sera stessa”, ci ha detto una fonte della Commissione. Von der Leyen ha fatto un altro passo per la regione, raccomandando di concedere lo stesso status anche alla Georgia, pure se condizionato alla realizzazione di diverse riforme da parte del governo di Tbilisi.
Se il Consiglio europeo di dicembre darà luce verde, “invieremo i nostri funzionari a Kyiv e Chisinau la sera stessa”
Il pendio della Georgia. Nona Mikhelidze, esperta dell’Istituto affari internazionali, ci ha detto che la decisione riguardo alla Georgia è stata politica. Vuole dire che l’Ue continua ad avere un approccio regionale riguardo all’allargamento e con un via libera all’Ucraina non poteva lasciare la Georgia a troppi passi di distanza. A questa considerazione va aggiunta la paura di Bruxelles che un “no” in qualche modo sarebbe stato percepito come la vittoria della Russia in Georgia, e avrebbe dato a Mosca la possibilità di rafforzare la sua posizione. Quindi le considerazioni della Commissione non riguardano tanto lo stato della democrazia e delle riforme, su quello c’è molto fare e il rapporto lo specifica. A Tbilisi viene chiesto anche un maggior allineamento internazionale con l’Ue. Mikhelidze fa una considerazione anche sull’Ue, che con la guerra della Russia ha introiettato il suo ruolo geopolitico, che non può essere scisso dalla funzione di normative power. L’anno che arriva sarà molto importate per la Georgia, nota Mikhelidze, ci saranno le elezioni, dal punto di vista della salute della democrazia lo status sarebbe immeritato, ma la speranza è “che le istituzioni e la società civile capiscano che implementare le riforme non è una cosa che va fatta per piacere a Bruxelles, ma per rendere la Georgia un paese migliore”. Dello slancio hanno beneficiato anche i paesi dei Balcani occidentali, alcuni dei quali sono in attesa da oltre un decennio (la Macedonia del nord aveva presentato domanda nel 2004). La Bosnia-Erzegovina ha ricevuto una piccola spinta inattesa: la raccomandazione di avviare i negoziati sotto condizioni, anche se ci sono stati passi indietro sul rispetto dei criteri politici dopo l’adozione di leggi anticostituzionali e secessioniste da parte della Republika Srpska.
Quanto dura l’entusiasmo. L’entusiasmo per l’allargamento ieri era palpabile: la sala dove von der Leyen ha tenuto la sua conferenza stampa, per una volta, era quasi completamente piena. Ma quanto è reale e quanto durerà l’entusiasmo della Commissione e degli stati membri? Tra le righe delle decisioni si intravedono già i rischi di tornare allo stesso approccio burocratico che aveva paralizzato le candidature dei paesi dei Balcani occidentali. Il giudizio positivo sull’Ucraina e la Moldavia non è così positivo. La Commissione, prima di proporre la “cornice negoziale” con i due paesi, ha chiesto ai governi di Kyiv e Chisinau di completare le riforme chieste quando fu concesso lo status di paese candidato. Per l’Ucraina significa altre misure nella lotta alla corruzione, nel processo di de-oligarchizzazione e nella protezione delle minoranze (ma non per i russofoni). Solo allora la Commissione proporrà ai governi di fare l’ultimo passo per avviare effettivamente i negoziati di adesione con Kyiv. In teoria dovrebbe avvenire nel marzo del 2024, ma su ciascun passo incombe la minaccia del veto di uno stato membro.
Il precedente macedone. La Macedonia del nord offre un buon esempio di quanto è facile far deragliare l’allargamento: Nel marzo del 2020, il Consiglio europeo approvò l’avvio dei negoziati, ma nel novembre dello stesso anno la Bulgaria mise il veto sulla “cornice negoziale” per un conflitto storico-linguistico con Skopje. Nonostante i continui giudizi positivi della Commissione, la Bulgaria ha tenuto bloccati non solo i negoziati con la Macedonia del nord, ma anche quelli con l’Albania fino al luglio del 2022. La stanchezza per l’allargamento dell’ultimo ventennio potrebbe ricomparire tra un paio d’anni, ancor più se la guerra russa in Ucraina dovesse trasformarsi in una conflitto congelato. La stanchezza in passato ha sempre spinto la Commissione ad adottare un approccio ragionieristico alla riforme adottate dai paesi candidati. Anche questi ultimi, almeno nei Balcani, non vedendo vantaggi concreti immediati a causa della complessità e la lunghezza del processo di adesione, hanno perso entusiasmo. Alcuni stati membri – in particolare i Baltici – accusano già la Commissione di sottovalutare la missione politica e storica della prossima riunificazione dell’Ue, quando insiste nel dire che l’allargamento è un “processo basato sul merito” (cioè sulle riforme per adottare la legislazione europea) di ogni singolo candidato.
Michel vuole fissare una data per completare l’allargamento. Von der Leyen dice: non è questione di tempo, ma di merito
Lo scontro. Attorno a questa missione politica e storica è in corso uno scontro sulla proposta del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, di fissare al 2030 la data entro cui l’Ue deve essere pronta per il prossimo allargamento. “Il nostro obiettivo non deve essere quello di procrastinare – per vent’anni abbiamo procrastinato molto riguardo ai Balcani occidentali e all’annuncio della prospettiva europea per questi sei paesi – ma di fissare obiettivi a loro e a noi”, ha detto Michel: “Questa data del 2030, è un modo per imporre disciplina a noi stessi e non solo a coloro che vogliono unirsi a noi”. L’Ue deve fare le sue riforme interne per prepararsi all’allargamento; alcuni dicono anche una revisione dei trattati per poter continuare a funzionare con trentasei membri. Il senso d’urgenza deve essere doppio, perché con l’ingresso di un grande paese come l’Ucraina ci sono decisioni difficili da prendere sul bilancio pluriennale dell’Ue, la politica agricola comune e la politica di coesione. Ma von der Leyen è contraria a fissare qualsiasi “data obiettivo” (e contraria a modificare i trattati). Ogni volta che le viene chiesto del 2030, lei risponde che l’allargamento è “basato sul merito” e che tutto dipende dalla “velocità” con cui i singoli paesi candidati fanno le riforme. Quello di von der Leyen è un modo per permettere all’Ue di tornare a procrastinare o addirittura di fare marcia indietro su Ucraina, Moldavia, Georgia e Balcani occidentali. Insomma, di abbandonare la “chiamata della storia” per ragioni di realpolitik internazionale o politica interna.
C’è anche un eterno candidato: la sua prima domanda di adesione risale al 14 aprile del 1987, il riconoscimento dello status di candidato è del 1999, i negoziati sono iniziati nell’ottobre del 2005. Ma è il candidato meno amato di tutti, perché una parte degli stati membri – come l’Austria – non ha mai davvero immaginato di poter integrare un paese di 85 milioni di persone a maggioranza musulmana che da repubblica laica è diventato un sultanato che vìola i diritti umani e lo stato di diritto. Stiamo parlando della Turchia: i negoziati sono fermi dal 2018, dopo che il Consiglio europeo ha deciso di congelarli per la repressione attuata da Recep Tayyip Erdogan a seguito del tentato colpo di stato del 2016. La Turchia “non ha invertito la tendenza negativa di allontanamento dall’Ue e ha perseguito in misura limitata le riforme legate all’adesione”, ha detto ieri la Commissione, criticando Ankara per il mancato allineamento in politica estera. Nessuno osa però lasciarla davvero, la Turchia: a novembre l’Alto rappresentante, Josep Borrell, presenterà una serie di idee per avere un rapporto strategico, più stabile e di lungo periodo, ma senza dover dire: “Allarghiamoci”.
(ha collaborato David Carretta)