La morte, avvenuta ieri, di una paziente oncologica di 78 anni, è stata provocata dall’assunzione volontaria di un farmaco, in ottemperanza alla disposizione della Corte costituzionale che ha riconosciuto questa possibilità quando siano accertate dalle strutture mediche le circostanze di impossibilità di cura e di volontarietà. E’ uno dei pochi casi di eutanasia avvenuti senza passare per un complesso iter giudiziario, ma basati su un rapporto tra paziente e struttura medica. Il diritto alla vita è un diritto fondamentale, ma quando lo si trasforma nel dovere di patire sofferenze inutili senza alcuna speranza che questa condizione possa cessare, diventa un’altra cosa. E’ ragionevole accertare che le circostanze siano quelle indicate, per evitare rischi di abusi o di errata valutazione della situazione clinica, ed è giusto che queste valutazioni delicate vengano effettuate da un medico in cui si ha piena fiducia. Aggiungere alle sofferenze della malattia il peso di tortuosi percorsi giudiziari non è né utile né necessario, se non in casi eccezionali.
Ormai nessuno, neppure nella Chiesa, sostiene che bisogna soffrire inutilmente per dare prova di attaccamento alla vita o per “offrire” le sofferenze a una divinità che in questo modo viene avvicinata a una mentalità sadica. Questo non toglie che arrivare a una decisione estrema richieda una consapevolezza che va accertata, per evitare che uno stato d’animo temporaneo porti a scelte tragicamente irreversibili. Trovare l’equilibrio fra la tutela della vita e il diritto a non subire una condizione intollerabile senza motivazioni sanitarie non è semplice, rimarrà sempre una zona grigia nella quale conta la sensibilità e la professionalità del medico, anch’egli naturalmente non infallibile. Però, quando siano state messe in atto tutte le cautele e verificate tutte le condizioni, prevale la libertà di scelta, la libertà della persona che è un bene altrettanto essenziale.