Caro Foglio, è un errore credersi dalla parte giusta su Gaza in nome dei “da sempre”

“C’è un prima e dopo il 7 ottobre”. Siamo a più di 600 giorni “dopo” il 7 ottobre. Chi governa Israele e comanda il suo esercito poteva agire in modi diversi. Ha scelto di agire nel modo che ha condotto a questo punto

Caro Foglio, immagino che si possa dire che il Foglio ha una “linea” su Israele e Palestina. “Da sempre”, aggiungerebbe distrattamente qualcuno, ma qui obietterei. Avere una linea “da sempre” vale a rinunciare a misurarsi con i mutamenti portati dal tempo, specialmente quando il tempo si fa così tempestoso e precipitoso. Si può dire che della “linea” facciano parte due capisaldi: l’opposizione strenua all’antisemitismo, e la difesa strenua dell’esistenza dello stato di Israele? Sembrano due incrollabili pilastri. Però sono crollati, o quasi. Sono almeno gravemente pericolanti. L’antisemitismo è insieme cresciuto a dismisura, e screditato come la copertura pretestuosa ai crimini di guerra israeliani, comunque li si chiami. Lo stato d’Israele sembra affidare la propria sopravvivenza alla sola potenza militare e a un rincaro quotidiano del suo esercizio, senza alcuna considerazione della reputazione internazionale, di persone e governi. Questo è evidente, vistoso, e fa parlare tanti, privi di pregiudizi e anzi indotti a spogliarsi di un pregiudizio sentito, del suicidio di Israele. Fa esasperare tanti di più, scandalizzati che il “suicidio” di Israele corrisponda in realtà alla carneficina e all’umiliazione di vite palestinesi.



Ma questo è ormai lo sfondo della questione, il suo fatto compiuto. Poi c’è l’interrogazione su che cosa voglia dire essere solidali con Israele. C’era molto prima del 7 ottobre, con due “anime” contrapposte teatralmente nei sabato sera di Tel Aviv. C’è, incomparabilmente, oggi. Ieri, cioè, quando i nostri giornali intitolavano sui “350 mila” in piazza contro Netanyahu – o “un milione”, come in altri titoli. Benché non pochi zelanti pro-palestinesi si compiacciano di proclamare il disinteresse dei manifestanti israeliani per le vite dei bambini di Gaza, questa lacerazione nella società israeliana costringe chiunque, compresa la “linea” del giornale, a chiedersi con quale parte di Israele stia la solidarietà con Israele. La disputa sul nome di genocidio sta anch’essa alle spalle dei fatti, materia di tribunali futuri, se ci saranno, e intanto della scelta retorica di ciascuno (io tengo tanto alle somiglianze quanto alle distinzioni, e anche una volta sancita la definizione di genocidio non rinuncerei alla distinzione fra la Shoah e la cosiddetta guerra di Gaza, condotta da un regime con una così forte e combattiva divisione interna, impensabile nel Reich tedesco).



Ieri, facendo mia una frase icastica di Paolo Pellegrin – “c’è un prima e dopo Gaza nella storia del mondo” – ho ricevuto obiezioni utili a chiarirmi le idee. Vittorio Zambardino: “Credevo che ci fosse un prima e dopo Ucraina”. Ma la Russia contro l’Ucraina era già successa. Israele contro i palestinesi e contro Israele e contro l’ebraismo e contro la memoria no. Parteggio fieramente per l’Ucraina, ma so che l’aggressione russa è un nuovo capitolo di una vecchia storia, e che la stessa violazione compiaciuta del tabù sull’atomica, contro il “Mai più Hiroshima”, è relativa, in un mondo in cui il fantasma degli arsenali nucleari si aggira largamente e allegramente, come nel caro alleato Kim Jong-un. Governo ed esercito di Israele a Gaza hanno sgretolato il “Mai più Auschwitz”, di cui l’Europa almeno aveva creduto di fare la propria fondazione. E ieri, paradossalmente, è stato Uri Arad, colonnello dell’aviazione israeliana ed ex prigioniero di guerra in Egitto, nel ’73, a dire che il dovere dello stato maggiore è di rifiutare l’attacco a Gaza, e che “le immagini di Rafah ricordano le macerie di Hiroshima!”.


Qualcun altro ha obiettato: “C’è un prima e un dopo il 7 ottobre”. Qui sta il punto essenziale, mi pare. Siamo a più di 600 giorni “dopo” il 7 ottobre. Sono in molti a credersi dalla parte giusta perché “da sempre”, a loro volta, stanno con “i palestinesi”, e magari trovarono qualche giustificazione al 7 ottobre. Ma chi governa Israele e chi comanda il suo esercito poteva, prima durante e dopo il 7 ottobre, e ogni giorno dopo, ieri, domani, agire in modi diversi. Ha scelto ogni giorno, ogni notte, di agire nel modo che ha condotto a questo punto, e che sta orribilmente continuando e ampliando le sue ambizioni. Questo è irreparabile, almeno per un buon pezzo di storia del mondo, e ben oltre il tempo che resta a noi, e ammesso che il mondo resti.



A questa sequela irreparabile appartiene il cinismo nei confronti degli ostaggi, donne e uomini israeliani rapiti da Hamas. La meravigliosa, tenace, disperata resistenza di famigliari, e via via di più numerosi solidali con la salvezza degli ostaggi, è stata anch’essa trattata, dentro e soprattutto fuori da Israele, come una comprensibile e marginale questione umanitaria, l’ennesimo confronto fra la frustrata legge di Antigone e la legge inesorabile di Creonte: era invece, come tante altre volte – nella storia italiana fatalmente – il cimento fra le opposte valutazioni della vita umana, che fosse quella dei “nemici” o quella dei propri.


La “linea” su Israele e Palestina non può dunque non misurarsi col tempo trascorso e a venire. Non si può restare trincerati dietro la “solidarietà con Israele” come se non esistessero Netanyahu Smotrich Ben Gvir e compagnia delinquente da una parte, e i cittadini israeliani e le madri israeliane nelle strade dall’altra. E la gente palestinese di là e di qua. Il tempo conta, quanto alla parte da cui stare, e soprattutto alla parte da cui non stare. Scrivo un’ovvietà, ma il vento non soffia sul buon senso. Lo scorso 26 luglio Giuliano Ferrara esponeva finalmente così la sua versione. “Subito dopo il 7 ottobre avevamo detto, facile previsione, che la solidarietà con Israele assalita era ovvia. Meno ovvio sarebbe stato essere solidali con un paese e una comunità che rispondono al fuoco e cercano la pace e la sicurezza nell’unico modo reso possibile dall’attacco di Hamas. Ma non avremmo mai pensato che le cose si sarebbero disposte in un circuito infernale, come la Riviera di Gaza e una strisciante annessione per fame. Un conto sono le vittime di guerra, il martirologio di ogni giorno amministrato dagli assassini terroristi, un conto è tollerare un universo concentrazionario senza scampo in un territorio di cui sei responsabile. Il cinismo delle diplomazie che riconoscono come stato sovrano il pulviscolo di terrore in cui è caduto il popolo palestinese porta dove nessuna democrazia dovrebbe farsi portare: alla delegittimazione dello stato ebraico attraverso la sua mostrificazione. A questa maledizione Israele in guerra ha il dovere di reagire”.



Ecco. Giuliano e tante e tanti altri hanno scritto molte altre cose, è il viavai di chi scrive su un quotidiano. Intanto, a quella maledizione Israele non ha reagito, e l’ha aggravata. Del resto Giuliano, e non solo lui, aveva fatto i conti col tempo mettendo a credito dell’oltranza di Netanyahu i colpi inflitti a Hezbollah in Libano, ai miliziani iraniani e iracheni in Siria, e in definitiva il crollo di Assad, e l’indebolimento dell’Iran. Passaggi diversi e dalla diversa valutazione, da bilanciare comunque con la realtà delle vittime civili a Gaza in Cisgiordania e altrove, e con la ferita internazionale inferta all’ebraismo.



L’altroieri Thomas L. Friedman scriveva della rottura tra gli ebrei “che sentono il bisogno di stare dalla parte di Israele, giusto o sbagliato che sia, e coloro che semplicemente non sopportano più il comportamento orribile di questo governo israeliano a Gaza, soprattutto quando vedono centinaia di migliaia di israeliani scendere in piazza contro il governo”. E che: “Il mondo ora è in grado di distinguere tra una guerra combattuta per la sopravvivenza dello stato ebraico e una guerra combattuta per la sopravvivenza politica del suo primo ministro”. Ferrara aveva rigettato come una sciocchezza la tesi su Netanyahu che manda allo sbaraglio Israele per la sopravvivenza propria (e di sua moglie), e sono molti a sostenere che chiunque altri, al timone di Israele, si sarebbe comportato allo stesso modo. E’ la convinzione più nemica della ragionevolezza e del libero arbitrio di persone e personaggi – e popoli. E’ anche la convinzione che più favorisce gli odiatori di Israele e della sua satanica predestinazione.

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