Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore – Caro G. Ferrara, leggere i suoi articoli in questo terribile periodo è per me e mio marito e per tanti di noi, quasi salvifico: siamo dilaniati dal nostro essere ebrei e israeliani oltre che italiani e sentirci così non capiti, anzi, ormai di nuovo discriminati fa male! Certo un male più piccolo di quello subìto dai pochi gazawi innocenti e dalle vittime del 7 ottobre e dai soldati di Idf e da tutti i parenti che piangono una vittima o aspettano un ostaggio che se tornerà sarà un untermensch come i sopravvissuti della Shoah. E dunque grazie di tener la barra dritta, non risparmiando a Bibi quel che gli spetta in termini di critiche e condanne ma ricordando sempre che è Hamas il responsabile di questi eccidi e di una condotta che ha imparato da Hitler e ha superato il maestro. Abbiamo bisogno di leggere i suoi articoli che ci confermano che c’è ancora intelligenza, l’intelligenza di una ragionevole sensibilità e giustizia.
Anna Treves
Grazie Anna. Le sue parole mi fanno pensare anche a una lettera firmata pochi giorni fa dal rabbino capo della Polonia, Michael Schudrich, che ha firmato una lettera insieme con alcuni rabbini ortodossi per esprimere il seguente e sacrosanto concetto: “Anche nel mezzo di una guerra orribile e immorale scatenata da Hamas, ciò non ci esonera dalla responsabilità di sfamare e fornire assistenza medica alla popolazione civile”. Viva Giuliano!
Al direttore – Scrivo per raccontarle un episodio sgradevole successo pochi giorni fa a Capalbio. Nessun boa di struzzo ostentato, nessuna citazione camp alla Pasolini, e nemmeno un tableau vivant decadente da Salò. Solo io, il mio bassotto di sei chili (in braccio, unica vera colpa per alcuni amici) ma certo non a invadere corsie o posti a sedere e la navetta che porta a Macchiatonda, nella magnifica tenuta dove già il paesaggio maremmano ha il suo che di mistico. L’autista, invece, il suo misticismo lo ha espresso così: “Frocio di merda”. Ripetuto più volte, con foga evangelica. Il casus belli? Il mio cane minuscolo, Emi. Che, nell’Italia del 2025, pare essere più scandaloso di una Ferrari camouflage lanciata a 200 all’ora nella notte. E dire che la navetta trasportava in tutto tre persone: nessun intralcio, nessun disturbo. Noi tre, due amiche e il sottoscritto con il pelosetto di poco peso. Ma tant’è: lo zelo talebano per le regole private del trasporto incontra sempre la voglia repressa di insulto e di livore. Così, in piena bassa Maremma, mi sono ritrovato dentro una pagina che Flaiano avrebbe scartato come troppo ovvia: io nei panni del “diverso” da additare, lui in quelli del piccolo borghese incarognito che, dopo aver contestato il cane, decide di passare alle parole, e pure al corpo. Perché, a scanso di dubbi, è sceso dal mezzo dirigendosi minacciosamente verso di me con tutte le intenzioni di menare le mani. Eppure uno pensa di avercela fatta: sopravvissuto all’adolescenza degli anni Ottanta, quando “frocio” faceva parte del lessico obbligatorio, come il paninaro e il walkman; scampato agli scherzi da caserma; uscito vivo dalle periferie urbane e dalle serate nei locali cool per maschi alfa. Ci si illude che, verso i cinquant’anni, l’insulto omofobo sia un reperto d’archeologia, roba da bar di provincia in bianco e nero. E invece eccolo lì, fresco di giornata, servito come il caffè del mattino, con vista sul mare della Maremma. A Macchiatonda, signora mia! Non a Coccia di Morto – dove al limite te lo aspetti (sbagliando) – e nemmeno a Tor Bella Monaca, ma nella riserva chic, tra capanni di legno e tramonti instagrammabili. Forse è questo che colpisce di più: non tanto l’offesa, quanto l’idea che proprio lì, nella piccola Atene toscana, ancora si debba sentire “frocio di merda” detto con la stessa naturalezza con cui un tempo si chiedeva un ghiacciolo all’anice. E allora? Si denuncia? Si tace? Si fa la vittima social con il post indignato? Oppure, come suggerisce un amico di generazione più ruvida, si risponde alla vecchia maniera: “e tu, rincarando”. Non lo so. So solo che, ancora una volta, in Italia nel 2025, il problema non è il cane in braccio. Il problema è che c’è sempre qualcuno pronto a scendere dal suo mezzo, pubblico o privato, per rinfacciarti chi sei. Forse sarebbe ora che, invece delle regole creative sul trasporto animali, si introducesse un bonus psicologico obbligatorio per autisti troppo zelanti o persone troppo inclini alla violenza. Costerebbe meno di un nuovo rigassificatore, e almeno ci risparmierebbe l’ennesima replica trash. Con amarezza.
Ivan Notarangelo