Le scomode verità sulle promesse pensionistiche e i pesi del welfare

Bisogna rivedere un sistema pensato durante il boom economico e demografico, coniugando libertà e sostenibilità

La demografia pone una sfida esistenziale a welfare, conti pubblici e crescita. Gli italiani non sembrano rendersene conto a pieno, o forse s’illudono che il problema si manifesterà in un futuro lontano e che nel frattempo, come sempre, una soluzione si troverà. La verità è che il sistema pensionistico pubblico, a ripartizione, e il sistema sanitario nazionale sono stati disegnati, in momenti diversi, ma sempre durante i “Trenta Gloriosi”, decenni di miracolo economico e di boom demografico. I numeri di oggi raccontano una storia molto diversa. I tassi di crescita sono meno della metà di quelli di allora: 0,5 per cento rispetto al 6,9 per cento nel 1955 e al 4,4 per cento nel 1965. Il numero medio di figli per donna è a 1,18: ben al di sotto del livello di sostituzione generazionale, che è di 2,1. Circa 420 mila sono i nuovi nati, di cui circa 50 mila cittadini stranieri, a fronte di 651 mila decessi. La mobilità non aiuta. Entrano giovani dall’estero e alcuni rientrano, ma il saldo rimane negativo. A uscire sono spesso i giovani formati nelle nostre scuole e università (circa 156 mila nel 2024) ed è proprio il deficit di capitale umano qualificato, non la mobilità in sé, a preoccupare: si riducono potenziale di crescita e produttività.



Se il welfare pubblico vuol mantenere la propria vocazione universalista, deve rivedere parametri e promesse, rivedendo istituti e promesse alla luce di questi andamenti, demografici ed economici. Nel corso degli anni, molto si è fatto sull’adeguamento dell’età di pensionamento all’aspettativa di vita e per proteggere le pensioni rispetto alle variazioni dei prezzi. Molto meno si è fatto per allineare la spesa alle grandezze reali che ne fondano la sostenibilità. Se l’economia corre, le pensioni possono crescere tenendo quel passo; se rallenta, serve un riallineamento, prudente e trasparente. Del resto, la meccanica del sistema a ripartizione è chiara: le pensioni in erogazione sono pagate dai contributi versati dagli attivi. I conti di chi versa registrano i contributi versati, che saranno utilizzati per calcolare gli assegni pensionistici futuri. Si tratta, in realtà, di contributi virtuali, a cui non corrisponde un accantonamento reale. Le promesse di pensioni e welfare anziano di oggi si fondano, oltre che su scelte coerenti, sulla credibilità delle proiezioni su demografia, occupazione e crescita dell’economia. Il meccanismo sta in piedi se i contributi versati da chi oggi lavora saranno “restituiti” da chi seguirà nella catena delle generazioni, gli attivi delle coorti successive. Questi, però, saranno meno numerosi e, per questo, maggiormente gravati. Già oggi, un occupato italiano concorre al finanziamento del welfare anziano con una quota superiore al 68 per cento del pil pro capite, che è destinato a peggiorare in assenza di interventi architetturali. Com’è possibile pensare a un sentiero di crescita basata sul capitale umano qualificato con un fardello così pesante che viene dalla generosità del passato?



Certamente, con una popolazione che vive più a lungo, l’età di pensionamento è una variabile chiave per tenere in equilibrio i conti. Tuttavia, non è pensabile che tutto il peso degli aggiustamenti necessari si scarichi, meccanicamente e unicamente, sull’innalzamento obbligatorio dell’età di pensionamento. Accanto al ripristino di condizioni di equità, intra e intergenerazionale nel labirinto delle pensioni e del welfare pubblici, serve non recidere la pianta delle libertà individuali. Ad esempio, consentendo, entro i limiti in cui ciò oggi è possibile, flessibilità in uscita all’interno di soglie prefissate, accompagnando la libertà di scelta e adeguando i trattamenti ai contributi complessivi versati e all’aspettativa di vita. In parallelo, anche se abbiamo accumulato un ritardo di almeno trent’anni, serve dare impulso ai pilastri complementari a capitalizzazione.



Certo, non è un compito semplice, perché le aliquote di contribuzione al primo pilastro a cui ci siamo condannati per tenere in equilibrio il sistema si divorano spazio vitale per un secondo pilastro di dimensione commisurata alla portata delle trasformazioni avvenute e di quelle che avverranno. Alcuni interventi puntuali, concreti e utili per dare un segnale forte al lavoro e all’impresa, sono possibili: accrescere le adesioni ai fondi con nuove finestre di silenzio assenso, favorire la scelta della rendita pensionistica, e non lo smobilizzo del montante, al momento dell’uscita. In generale, le ragioni per rafforzare il sistema dei fondi pensione rimangono molteplici: i fondi funzionano con il metodo della capitalizzazione, le risorse sono accumulate con accantonamenti reali e vengono investite nei mercati finanziari. I diritti di proprietà sono definiti in modo certo, le risorse sono investite anche nell’economia reale del paese, vi sono effetti positivi sull’evoluzione dei mercati finanziari e sul potenziale di crescita.



Soprattutto, la componente a capitalizzazione riduce il trasferimento dei costi sulle giovani generazioni, attuali e future. Ed è al futuro che serve guardare, per mitigare i termini di quello che potrebbe divenire un vero e proprio conflitto intergenerazionale.



Alcuni interventi strutturali sono possibili. Nessuno facilmente percorribile: la politica del passato ha lasciato un’eredità pesante e il costo politico non diminuirà. Ma occorre coltivare pensiero e dibattito. Ad esempio, accanto agli incentivi per attrarre capitale umano qualificato dall’estero, serve riflettere se, per consentire, il lavoro ai giovani, non sia necessario concludere l’era delle decontribuzioni a tempo e mettere l’età al centro del sistema di tassazione, con una modulazione dei contributi tributari individuali lungo il ciclo di vita. In parallelo, la manutenzione al primo pilastro pensionistico e il potenziamento delle adesioni ai sistemi a capitalizzazione potrebbero essere accompagnati dall’introduzione di uno strumento di copertura per chi non ce la fa ad accumulare. Di fronte a un cambiamento epocale nelle variabili demografiche, serve disegnare misure che mettano al centro il dinamismo tecnologico e industriale, il tasso di crescita dell’economia, la produttività. La vitalità industriale, le imprese, i giovani, il lavoro sono la strada maestra per rendere sostenibile il welfare anziano. Serve che la politica metta al centro questa semplice, ma inesorabile, verità.

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