Sfidare i propri stessi tabù, senza rincorrere la destra. Perché bisogna tutelare i diritti dei migranti ma dare allo stesso tempo risposta alla domanda di legalità e sicurezza che viene dalla maggioranza degli italiani
Sull’immigrazione si vincono e si perdono le elezioni. La sinistra molte ne ha perse. E non solo perché i partiti di destra, in tutto l’occidente, abbiano costruito sul tema una narrazione tanto tossica quanto efficace, volta a fomentare paura e ostilità nei confronti degli stranieri, né perché la maggioranza dei cittadini sia razzista.
I flussi migratori sono parte della storia europea, e addirittura costitutivi della società americana. Le più marcate differenze culturali e religiose che caratterizzano quelli più recenti non possono essere sottovalutate, ma spiegano solo in parte le resistenze cui assistiamo. Ciò che più contribuisce a fare dell’immigrazione il tema che maggiormente turba e divide le società occidentali – unitamente al fatto che si tratta di un fenomeno in larga misura subìto, non governato – è lo stato di salute che caratterizza le comunità “riceventi”, e in particolare la condizione di incertezza – sociale, economica, culturale – che affligge in questi anni ampi strati della popolazione. Si teme l’arrivo di persone “estranee” se si sente minacciata la propria stabilità, se si registra o si paventa un peggioramento delle proprie condizioni materiali, se non ci sente sicuri, se si avverte il rischio di uno sconvolgimento delle proprie abitudini, tradizioni e riferimenti identitari. Per questo l’immigrazione suscita maggiore opposizione fuori dalle città – perché quei contesti sono oggi i più fragili – e più nelle periferie, tra le classi sociali più deboli, che nei centri urbani abitati dalle classi più agiate.
Una società insicura (in tutti i sensi) chiede protezione e sicurezza, ed è intorno a questa domanda che l’offerta politica si è divisa. Se la destra l’ha fatta sua e l’ha sfruttata – da un lato cavalcando le paure, dall’altra promettendo controllo e repressione – la sinistra ha dato l’impressione di ignorarla. Poco importa che le promesse della destra – per stare in Italia: i porti chiusi, il blocco navale, i rimpatri di massa – siano spesso irrealizzate o irrealizzabili. Conta l’impressione che si dà, e mentre la destra ha dato l’idea di farsi carico del problema, e di proporsi almeno di porre un freno a un fenomeno che molte persone hanno percepito come fuori controllo, la sinistra – privilegiando sempre e comunque la dimensione umanitaria – ha consentito si consolidasse l’idea di un’indiscriminata apertura.
L’immigrazione, così, è diventata la principale ragione di distacco tra i ceti popolari e la sinistra. Se n’è accorta quella europea, che tanto a Bruxelles quanto nella responsabilità di governo in diversi paesi ha iniziato a prendere sul serio la questione, superando una visione esclusivamente umanitaristica e affrontando – con soluzioni diverse, non tutte condivisibili – il tema del “governo delle migrazioni”. Non sembra invece essersene resa conto la sinistra italiana, e in particolare il Partito democratico, che ancora fatica a mettere a fuoco un concetto fondamentale: se sull’immigrazione si perdono le elezioni, poi finisce che governano gli “altri”, con tutte le conseguenze del caso (compresa quella che le politiche migratorie le decidono a quel punto gli “altri”, normalmente per il peggio).
Di immigrazione – se aspira a vincere le elezioni e a governare il paese – è necessario quindi che la sinistra italiana si occupi con occhi nuovi, affrontando i nodi più critici e sfidando i propri stessi tabù, non certo per scimmiottare la destra e i populisti, ma per definire una posizione seria, pragmatica, che tuteli i diritti dei migranti ma che dìa allo stesso tempo risposta alla domanda di legalità e sicurezza che viene dalla maggioranza dei cittadini italiani.
Non si tratta di rinnegare l’idea della società aperta, anzi: l’Europa e l’Italia non hanno mai avuto tanto bisogno di immigrati. Secondo l’Eurostat nei prossimi 15 anni la popolazione in età lavorativa nell’Unione si ridurrà del 7 per cento, e senza gli afflussi di cittadini extracomunitari oggi già previsti la flessione sarebbe addirittura del 13 per cento. Quanto all’Italia, secondo l’Istat entro il 2040 il numero di persone in età lavorativa si ridurrà di circa 5 milioni. Ne potrebbe conseguire una contrazione del pil stimata nell’11 per cento, pari a un calo dell’8 per cento del prodotto pro capite.
Sappiamo che è necessario investire su politiche che provino a risollevare il tasso di natalità e su un aumento della partecipazione al lavoro di donne e giovani. Ma senza “robusti flussi migratori” (cit. Mattarella) il nostro paese è destinato a un netto impoverimento, accompagnato dall’impossibilità di mantenere il generoso welfare a cui ci siamo abituati (sanità e pensioni in testa).
E’ però fondamentale distinguere. Sostenere la necessità di “robusti flussi migratori” non può comportare la rinuncia al controllo delle frontiere. Non significa far entrare chiunque voglia venire in Italia e in Europa. Distinguere, innanzitutto, significa dire sì all’immigrazione regolare – davvero, non per finta – e dire no a quella irregolare.
Sì a consistenti ingressi pianificati, calibrati sulle necessità della demografia e del tessuto produttivo, il più possibile qualificati, agevolati da processi molto più efficaci di quelli utilizzati dall’attuale governo. Sì alla ricostruzione di un rapporto prioritario tra immigrazione e lavoro, alla cancellazione della legge Bossi-Fini, della lotteria dei click day e del meccanismo – del tutto inefficace – che consente l’ingresso solo a chi è già titolare di un contratto di lavoro (a cui si devono innumerevoli “finti ingressi” e truffe ai danni dei migranti); sì al permesso di soggiorno temporaneo per “ricerca di lavoro”, accompagnato dal ripristino dell’istituto dello sponsor per la fornitura delle necessarie garanzie. Sì alle politiche per l’integrazione smantellate negli anni dai governi della destra, all’accoglienza nel SAI e all’accoglienza diffusa. E sì alla regolarizzazione su base individuale degli stranieri irregolarmente soggiornanti che vogliono lavorare e rispettare le leggi, sia per iniziativa di un imprenditore che intenda offrire loro un’occupazione, sia per conclamato radicamento sociale.
Sono questi i “sì” contenuti nel disegno di legge presentato per il Pd da Graziano Delrio, a mio avviso tutti importanti e condivisibili, nel loro insieme tali da definire una posizione marcatamente distinta da quella praticata dalle attuali forze di governo.
Scommettere sull’immigrazione regolare è il modo più efficace per contrastare i flussi illegali e l’attività delle mafie che traggono profitto dal traffico di esseri umani. Così come regolarizzare chi non si è in grado di rimpatriare – negli ultimi anni i rimpatri non sono mai andati oltre i 4.500 – significa sottrarre alla marginalità centinaia di migliaia di persone oggi “invisibili”, affrancarle dalla prospettiva di sfruttamento nel lavoro nero come da quella di delinquere per sopravvivere. Scommettere sulla dimensione legale dell’immigrazione è anche un modo per contribuire alla maggiore sicurezza delle nostre città.
Il sì va ovviamente esteso ai rifugiati, a chi scappa da guerre, persecuzioni o calamità naturali, perché lo prescrivono la Costituzione Italiana e la Convenzione di Ginevra, ma prima ancora perché lo richiedono i valori umanitari nei quali ci riconosciamo. E però il diritto all’asilo va reso concretamente esigibile, mentre oggi non lo è. Il che richiede che si moltiplichino i corridoi umanitari, con un forte regia europea e il concorso di Oim e Unhcm, adevitare che i rifugiati – per mettersi in salvo e arrivare in Europa – debbano a loro volta affrontare i “viaggi della speranza” e mettersi nelle mani dei trafficanti.
Non bastano però i sì, come ho detto. Distinguere significa oggi saper dire anche di no, con la stessa chiarezza, all’immigrazione irregolare gestita dalla malavita organizzata, di cui i migranti – anche per la mancanza di effettivi canali di ingresso legali – sono le prime vittime. E’ l’immigrazione irregolare che genera sofferenza, insicurezza e illegalità. E’ l’immigrazione irregolare che finisce per alimentare paura e ostilità nei confronti degli stranieri.
Questo “no” non è stato fin qui pronunciato con sufficiente chiarezza dalla sinistra e dal Partito democratico, alimentando il pregiudizio che tutta la sinistra sia a favore dell’ingresso e dell’accoglienza indiscriminata di chiunque voglia venire in Italia e in Europa. La mancanza di questo “no”, il rifiuto a considerare come necessari il controllo delle frontiere e il contrasto dell’immigrazione irregolare, l’idea che si tratti di princìpi e di politiche “di destra” dalle quali è doveroso distinguersi, è tra le principali cause del divorzio tra la sinistra e i ceti popolari – in Italia come in Europa, come negli Stati Uniti – nonché la ragione per cui molte elezioni sono state perse.
E’ tempo a mio avviso di segnare una svolta. Lo ripeto: non certo per copiare (male) la destra, né per fare passi indietro rispetto ai valori umanitari che ci animano. Rimane ferma l’opposizione a trovate populiste come l’inutile e costoso hub in Albania, alla spettacolarizzazione dei rimpatri e a ogni negazione dei diritti umani. Rimane il dovere di salvare chiunque rischi la vita in mare, e di assisterlo nel modo migliore, e quindi l’impegno a sviluppare un’efficace attività di search & rescue, meglio se attraverso una missione di salvataggio europea. Non è in discussione la dimensione di protezione e di cura, di chiunque si trovi in una situazione di pericolo o di fragilità. Si deve però avere chiaro che il mancato contrasto dei flussi irregolari rappresenta un assist alle attività criminali di chi lucra sulla pelle dei migranti, così come il mancato controllo delle frontiere mette a repentaglio la sicurezza che l’Europa ci chiede di garantire.
Il potenziamento dei flussi regolari può certamente ridurre – e di molto – i movimenti informali, ma sarebbe un’illusione pensare che possa azzerarli, così come lo è affidarsi alla prospettiva di moltiplicare i rimpatri forzati (mentre qualche risultato in più si può ottenere con i rimpatri volontari assistiti). Rimane la necessità di mitigare l’impatto di movimenti migratori che non scompariranno, e di combattere con la massima efficacia il traffico di esseri umani.
Per questo non ci sono alternative: bisogna parlare con i paesi di origine e con quelli di transito, a partire dai paesi dell’Africa subsahariana e della sponda sud del Mediterraneo. Anche – sottolineo – se si tratta di regimi autoritari. Bisogna costruire rapporti e lavorare sugli ingressi regolari per lavoro, costruire percorsi di legalità, chiedendo in cambio un atteggiamento più duro nei confronti dei trafficanti, insieme a garanzie sul rispetto dei diritti umani. Sappiamo che è complicato ottenerne, soprattutto se ci si ferma alle relazioni bilaterali. Ma un patto tra Unione Europea e Unione Africana, esteso alle Nazioni Unite, può cogliere l’obiettivo. Si tratta di tenere insieme sostegno allo sviluppo – aiuti e investimenti per sanità, energia e istruzione – rafforzamento dei canali di immigrazione legale e contrasto delle mafie che gestiscono il trafficking. Prevedendo che alle agenzie dell’Onu – Oim e Unhcr – sia consentito esercitare un’effettiva vigilanza sul rispetto dei diritti umani. E’ difficile? Molto. Ma è una strada obbligata. Non farlo significa infatti rimanere esposti a flussi incontrollati potenzialmente senza limiti. E, con ciò, consegnare le chiavi delle nostre democrazie ai trafficanti di esseri umani.
Concludo tornando sul tema dell’integrazione, perché è di primaria importanza. La destra ha smantellato quello che c’era, ma quello che c’era era poca cosa. Senza adeguate politiche di formazione, integrazione e inclusione, un maggior afflusso di cittadini extra Ue rischia di generare – accanto agli effetti positivi di cui s’è detto – gravi disuguaglianze, segregazione e conflitti.
E’ fondamentale quindi che gli ingressi per lavoro tengano conto della conoscenza dell’italiano, dei titoli di studio e delle competenze professionali, e che l’esperienza oggi relegata ai pochi ingressi “extra quote” introdotti dal “decreto Cutro” – consentiti a chi abbia frequentato corsi di lingua e di formazione professionale nei Paesi d’origine – venga estesa e sistematizzata.
Ancora: è un fatto che gli immigrati sono oggi richiesti dal mercato del lavoro anche perché – al netto delle situazioni di vero e proprio sfruttamento – sono disposti a sobbarcarsi lavori faticosi (spesso poco retribuiti) che i giovani italiani preferiscono non fare. Dobbiamo però assolutamente scongiurare il rischio che si consolidino disuguaglianze su base etnica e che si formi una vera e propria “sottoclasse” di origine straniera. Diversi segnali – tra i quali le peggiori performance scolastiche dei giovani immigrati, il loro tasso di abbandono scolastico e l’alta quota di Neet che li caratterizza – ci dicono quanto questo rischio sia già oggi concreto. E quanto sia quindi necessario lavorare per la maggiore inclusione delle seconde e terze generazioni, a evitare che la frustrazione delle loro aspirazioni si traduca in risentimento, com’è accaduto in altri paesi.
Sarebbe tuttavia ipocrita non riconoscere che i migranti non sono tutti uguali, e che a seconda della cultura e della fede religiosa d’origine alcuni gruppi etnici sono più o meno portati a integrarsi nel contesto civile che li riceve. E’ interessante a questo riguardo – in positivo – l’esperienza della Spagna, alla cui recente crescita demografica ed economica ha fornito un contributo decisivo l’immigrazione di origine latino-americana, incentivata perché ritenuta – per ragioni culturali, linguistiche e religiose – affine e di più facile integrazione: si stima che negli ultimi dieci anni circa due milioni di persone di origine latino-americana si siano stabilite in Spagna, facilitate da specifici accordi tra il governo di Madrid e diversi paesi dell’America Latina, nonché dalla possibilità di chiedere la cittadinanza dopo solo due anni di residenza legale (per le altre nazionalità ne servono dieci).
Si tratta ovviamente di una circostanza non facilmente ripetibile, retaggio della lunga dominazione ispanica su molti territori dell’America centro-meridionale, ma da cui è possibile dedurre la legittimità – in generale, nell’ambito dei flussi che si andranno in futuro a pianificare – dell’introduzione di qualche forma di “preferenza” basata su un criterio di “maggiore integrabilità” di questa o di quella componente migratoria (come fu anche per i siriani nella Germania di Angela Merkel).
Lo stesso governo socialista di Pedro Sánchez, peraltro, non ha esitato nel frattempo a siglare accordi bilaterali con Marocco, Mauritania e Senegal finalizzati al contenimento dell’immigrazione irregolare, accompagnandoli con il rafforzamento del controllo delle frontiere marittime nello Stretto di Gibilterra, nelle isole Baleari e nelle Canarie. Ciò a conferma che esiste un modo per la sinistra per affrontare con efficacia il tema dell’immigrazione, tenendo fede ai propri princìpi ma senza regalare praterie alla destra. Questo modo richiede che si concilino solidarietà e sicurezza, accingendosi a governare i movimenti delle persone secondo un principio in fondo semplice: favorire tutto ciò che è legale, e contrastare ciò che non lo è.
Giorgio Gori, per dieci anni sindaco di Bergamo, è europarlamentare eletto nelle liste del Pd