La relazione difficile tra Turchia e Israele, tra tensioni e convergenze (sulla Siria)

Il rapporto tra Ankara e lo stato ebraico oscilla tra l’interesse condiviso per l’indebolimento dell’Iran e lo scontro su Gaza. Erdogan e Netanyahu puntano a ritagliarsi un ruolo centrale agli occhi dell’Amministrazione Trump. Ma per capire il futuro di questo rapporto bisogna guardare alla Siria

La Siria post Assad è decisiva per definire le relazioni tra Israele e Turchia, nuovi poli di influenza dell’ordine regionale mediorientale. Tra dichiarazioni incendiarie e canali diplomatici riservati, il rapporto tra Ankara e lo stato ebraico oscilla tra tensioni e convergenze. Allo scontro su Gaza si affianca l’interesse condiviso per l’indebolimento dell’Iran. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il premier israeliano Benjamin Netanyahu puntano a ritagliarsi un ruolo centrale agli occhi dell’Amministrazione Trump, che ha già dimostrato di saper sfruttare le tensioni tra gli alleati secondo convenienza. “La rivalità tra Israele e Turchia è un dato di fatto: sarà proprio questa, più o meno intensa, a definire gli equilibri della regione” dice al Foglio Riccardo Gasco, dottorando ricercatore all’Università di Bologna e coordinatore del programma di politica estera presso il centro di ricerca IstanPol di Istanbul.



Per Ankara, il consolidamento della propria influenza sul quadrante siriano è l’evoluzione naturale del sostegno offerto ai ribelli anti Assad e culminato con l’ascesa dell’attuale presidente siriano, Ahmed al Sharaa. La svolta è stata seguita dall’avvio di una pacificazione con il Pkk, il cui disarmo dovrebbe iniziare già questa settimana. Per Israele, invece, il cambio di regime a Damasco rimane un’incognita: per settimane l’aviazione israeliana ha colpito le strutture del regime deposto per impedire che armi e munizioni cadessero in mano ad attori ostili. Il riposizionamento mediatico di al Sharaa non è bastato a dissipare le perplessità sulle sue credenziali islamiste. Tuttavia, Tzachi Hanegbi, consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano, ha confermato l’esistenza di un dialogo diretto e quotidiano con Damasco, che potrebbe aprire la strada all’ingresso della Siria negli Accordi di Abramo. Israele mira così a ridurre l’influenza turca in Siria, forte delle aperture di al Sharaa.



Questa prospettiva, di per sé, appare ardita senza il placet di Ankara: ogni passo di Damasco verso Israele è visto dalla Turchia come un indebolimento del proprio ruolo regionale. “Non c’è ancora stato un riavvicinamento strategico tra Israele e Turchia sulla Siria. I due paesi stanno cercando di trovare un modus vivendi, a partire da un meccanismo di de-conflitto – dice al Foglio Nimrod Goren, presidente e fondatore dell’Istituto Mitvim e membro del Consiglio esecutivo di Diplomeds – Credo che ci siano ancora differenze fondamentali nel modo in cui i due paesi concepiscono il loro ruolo in Siria. Tuttavia, è nell’interesse di entrambi cercare di coordinare in qualche modo l’evoluzione degli eventi. Potrebbe avere ricadute positive anche su altri aspetti delle loro relazioni bilaterali”.



Ogni evoluzione formale nei rapporti resta subordinata – per Ankara – all’andamento del conflitto a Gaza, che Erdogan continua a utilizzare come leva di legittimazione politica sul fronte interno. “La narrativa verso Israele ha permesso a Erdogan di costruire una minaccia contro cui ergersi a difensore. Anche in caso di cessate il fuoco, il margine di manovra resterebbe limitato. È difficile immaginare che Erdogan possa concedere un riconoscimento formale a Israele in Siria senza prima considerare le ricadute domestiche”, osserva Gasco. Sarà inoltre necessario affrontare il nodo irrisolto delle alture del Golan: dopo la caduta del regime di Assad, le forze israeliane hanno esteso la loro presenza anche nella zona demilitarizzata controllata dall’Onu, occupando postazioni chiave come il Monte Hermon. Finora, nessun paese firmatario degli Accordi di Abramo aveva dispute territoriali aperte con Israele. Tuttavia, i segnali degli ultimi giorni sembrano incoraggianti. “Solo pochi in Israele credevano che fossero possibili canali di comunicazione diretti con la nuova leadership siriana. Già di per sé, questo rappresenta una transizione”, prosegue Goren.



Se il dialogo reggerà, potrebbero aprirsi spazi per accordi e forme di cooperazione che vadano oltre la sicurezza e che riguardino campi politici, economici e sociali”. Per capire il futuro dei rapporti tra Turchia e Israele, bisogna dunque guardare alla Siria. L’obiettivo è comune – una stabilità che non minacci l’ordine regionale – ma i mezzi per raggiungerlo restano diversi. A spingere verso un compromesso potrebbe essere il presidente americano, Donald Trump, pronto a premiare i suoi partner – la Turchia è vicina a essere reintrodotta nel programma F35 e ha ottenuto di ospitare il prossimo vertice della Nato nel 2026 – in cambio di un ecosistema pacificato.

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