La fame, le botte: storia di un ostaggio tornato dall’inferno

“Sono stato fortunato ad avere avuto Lianne e quelle figlie meravigliose per anni. Ma sono tornato in un paese traumatizzato”. La testimonianza di Eli Sharabi, rapito da Hamas il 7 ottobre

Se qualcuno osa ancora considerare gli ostaggi come qualcosa di diverso da una questione apartitica e non negoziabile, deve guardare l’intervista di Canale 12 all’ostaggio liberato Eli Sharabi, scrive il Jerusalem Post. Quest’uomo, con il volto segnato dalle torture, si è rifiutato di farsi spezzare. Eli è stato tenuto in cattività per 491 giorni, con i piedi incatenati per tutto il tempo. Ha perso 30 chili, sopravvivendo per mesi con una pasta o una pita al giorno. Le catene gli tagliavano la pelle. Solo al suo ritorno in libertà ha saputo dell’assassinio il 7 ottobre di sua moglie Lianne, delle due figlie Noiya e Yahel e del fratello Yossi in prigionia. Quando gli è stato chiesto perché rilasciasse l’intervista, ha detto: “Non possiamo lasciarli là. Ricordo ogni minuto in quel tunnel”. Eli si è assunto il compito di aiutare Alon Ohel, 24 anni, a sopravvivere. Quando i rapitori gli hanno detto che sarebbe stato rilasciato, “i terroristi hanno dovuto strapparmelo. Si rifiutava di lasciarsi andare. C’è voluto tempo per calmarlo. Gli ho promesso che non l’avrei lasciato lì, che mi sarei battuto per lui. Sono qui per lui e per gli altri ostaggi”. Dal momento in cui è stato sequestrato, Eli era entrato in “modalità sopravvivenza”. La fame ha preso il sopravvento sul resto. “Sapete cosa significa aprire un frigorifero, prendere un frutto o un uovo o un pezzo di pane? E’ quello che sogni ogni giorno, laggiù. Non ti importa delle percosse, ma datemi un’altra mezza pita”. I quattro ostaggi spezzavano una pita in parti uguali, la tenevano fino alla sera e poi la mangiavano distanziano i bocconi uno dall’altro “così puoi superare la notte”. I quattro discutevano su cosa implorare, una tazza di tè, un quarto di pita. “L’umiliazione era costante”. Convincere i rapitori a dargli un dattero o un pezzo di pane era una “salvezza”. Si facevano una sorta di doccia una volta al mese con l’acqua di una bottiglia o di un secchio. I maltrattamenti, dice Eli, dipendevano spesso dalle dichiarazioni di esponenti israeliani. “I terroristi ascoltavano sempre. Dopo ogni dichiarazione irresponsabile, eravamo i primi a subirne le conseguenze. Venivano da noi e dicevano: non danno cibo ai nostri prigionieri, e voi non mangerete; picchiano i nostri prigionieri, e noi vi picchiamo”. I quattro inventarono parole in codice per indicare i loro aguzzini, tra cui uno che avevano soprannominato “Immondizia”. Eli ricorda un giorno in cui a Immondizia fu detto che l’aviazione aveva bombardato la sua casa. Si precipitò da loro. Eli era il più vicino alla porta, il rapitore lo colpì con pugni e calci alle costole. Per un mese Eli non riuscì a respirare bene. “Gli ostaggi non sono una questione politica – dice Eli – Non è una questione di sinistra o di destra, è di rettitudine. Quando hanno ucciso la mia famiglia o i Bibas, quando hanno rapito Hersh, hanno forse chiesto che opinioni politiche avevano? Sono stato fortunato ad avere avuto Lianne per 30 anni, sono stato fortunato ad avere avuto quelle figlie meravigliose per anni. Ma sono tornato in un paese traumatizzato. E’ una questione di responsabilità e dei valori che questo paese vuole avere”.

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