Dal calcio all’hockey, l’America first trumpiana non risparmia neanche lo sport

L’allenatore del Canada, l’americano Jesse Marsch, ha detto di vergognarsi “dell’arroganza e del disprezzo” di Trump “nei confronti di uno dei nostri alleati più antichi, forti e leali nella storia”. Pronti i popcorn per i Mondiali organizzati con Messico e Canada

A un certo punto Jesse Marsch, statunitense di passaporto, originario del Wisconsin, dal maggio scorso allenatore della nazionale di calcio del Canada, ha cominciato a parlare più velocemente, come chi sta sentendo montare la rabbia e non vuole farla esondare. Si è portato la mano sinistra sul petto come per dare solennità al sentimento ed eccolo: “As an American, I’m ashamed”. Come americano, si vergogna. Americano in Canada, meglio. Lo ha detto nel giorno in cui le partecipanti alla final four di Concacaf Nations League hanno incontrato la stampa, a Los Angeles. Nel cuore degli Stati Uniti si è rivolto direttamente a Trump: “Basta con la retorica ridicola sul fatto che il Canada sia il cinquantunesimo stato; come americano, mi vergogno dell’arroganza e del disprezzo che abbiamo dimostrato nei confronti di uno dei nostri alleati più antichi, forti e leali nella storia”. In questo momento non si sente alcun rumore, ma è come se ci fosse una detonazione a fare da sottofondo.

Nei giorni della guerra dei dazi con Trudeau, dalla sfida commerciale allo stato da annettere (secondo Trump), il calcio entra nella contesa e chissà quando ne uscirà. Marsch parla mentre il delegato della Federazione statunitense (l’unica a non aver mandato il suo allenatore all’incontro con la stampa) dice “non mi chiedete altro, parlo solo di calcio, della Nations League”, ignorando che il calcio non è mai solo quello sport con undici calciatori per squadra e due porte, ma un gigantesco strumento di geopolitica che, infatti, il commissario tecnico del Canada ha interpretato come tale, tenendo la parola: “Il Canada è una nazione forte e indipendente, un luogo che attribuisce grande importanza all’etica e al rispetto, a differenza del clima polarizzato, irrispettoso e spesso pieno di odio che regna negli Stati Uniti”. Non proprio il lessico che Trump adora quando si parla di lui, ma forse il tycoon avrebbe dovuto capire che nello sport non tira una buona aria da quando ha cominciato a parlare da nuovo presidente degli Stati Uniti e si è messo a ridisegnare le mappe.

Una spia di allarme avrebbe potuto essere la prima partita del four Nations di hockey su ghiaccio di metà febbraio: Canada-Stati Uniti, ovviamente; tre risse in campo nei primi nove secondi effettivi di gioco, per dire che un po’ di tensione forse c’è. E quando il torneo è andato avanti e Canada e Stati Uniti si sono ritrovati in finale, i canadesi hanno vinto ai supplementari e Justin Trudeau un secondo dopo ha twittato: “Non potete prendere il nostro paese, e non potete prendere il nostro gioco”. Perché in Canada l’hockey su ghiaccio è parte dell’identità nazionale e perché, insomma, quello che è loro vogliono che resti loro, confini compresi.

Ma il calcio, soprattutto, fa rumore. Se parla l’allenatore americano del Canada o anche semplicemente se si guarda il calendario degli eventi e lo si sovrappone alle mire espansionistiche di Trump o ai suoi attacchi frontali. Riassunto dei discorsi del presidente degli Stati Uniti, da prima di insediarsi fino a quello sullo stato dell’Unione dell’altro ieri: non esclude l’uso della forza per prendersi Groenlandia e Panama, vuole il Canada come cinquantunesimo stato e cambiare nome al Golfo del Messico (altro paese destinatario dei dazi). Ora il pallone: la Groenlandia vuole entrare nella Concacaf (l’organo di governo del calcio di nord e centro America e nei Caraibi) per avere una propria riconoscibilità internazionale, per farlo aveva un incontro a Miami con il segretario generale della confederazione a fine febbraio. Spostato ad aprile e a Londra perché c’era chi ci vedeva un passo verso l’annessione solo per il viaggio del presidente della federazione groenlandese in America. E le altre? Basta tornare un attimo alla final four di Concacaf Nations League, l’origine dello sfogo dell’allenatore canadese: le semifinali si giocano il 21 marzo (la finale il 24) e sono Stati Uniti-Panama e Canada-Messico, che, appunto, sovrapposte al discorso di sopra ne fanno un tutti contro Trump. Sbaglia chi pensa che possano essere solo partite, già non lo sono più. E sbaglia chi non pensa al Mondiale del 2026, che nasce nel mezzo delle tensioni e chissà come andrà a finire.

Gianni Infantino, presidente della Fifa, era nelle prime file durante il giuramento di Trump ed è stato inquadrato quando sorrideva, mentre veniva detto che il Golfo del Messico sarebbe diventato Golfo d’America. Ma il Mondiale del 2026 si giocherà in tre stati: Stati Uniti, e, ops, Messico e, guarda un po’, Canada. Come si coopera, per farlo insieme se le condizioni sono queste? E come ci si rapporta a Infantino, completamente devoto al presidente degli Stati Uniti? Lui che si è congratulato quasi per primo per la rielezione di Trump e gli è legato da una serie di intrecci per cui prima di assegnare i Mondiali del 2030 e del 2034 ha trasmesso un videomessaggio dalla Casa Bianca e su quelli che verranno l’anno prossimo (che ha assegnato a Usa, Messico e Canada proprio durante il primo mandato del miliardario americano, nell’agosto 2018) ha già detto: “Penso che sia assolutamente cruciale per il successo di una Coppa del Mondo avere una stretta relazione con il presidente”. Quanto sia possibile più stretta, è difficile da immaginare, se nello Studio Ovale tutti possono notare, tra un ordine esecutivo da firmare e un altro, una Coppa del Mondo che nessuno sa se è vera, una replica, come è arrivata lì, ma è comunque un cadeau del capo della Fifa su cui tutti fanno i vaghi. E visto che negli Stati Uniti si giocherà anche il primo Mondiale per Club (dal 15 giugno) con la nuova formula a 32 squadre, perché non far aprire il sorteggio da Ivanka Trump e a suo figlio? Ah, c’è pure da pensare al trofeo placcato in oro da realizzare per il vincitore di questo “nuovo” torneo, e Infantino per non allontanarsi troppo ha chiesto un consiglio all’influente Jared Kushner, genero di Trump che era con Musk a vedere la finale dei Mondiali in Qatar: Kushner gli ha suggerito di rivolgersi a Tiffany per il design. Allora, si domandano in molti in questi giorni, chissà se Trump ha pure chiesto di riammettere la nazionale russa alle qualificazioni per il 2026, che inizieranno in primavera. Infantino ha lasciato tutti con questa frase: “No, non mi è stato chiesto. Ma vogliamo che tutti i paesi giochino”. Che forse è facile da interpretare.

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