È alle spalle di due cantanti in grado di d’apparire in sintonia con i tempi e con le atmosfere dominanti. Un pop rassicurante, che ci dà l’illusione che in fondo tutto va bene e siamo ancora ben vivi, nel gioco delle parti
Il fatto è che ogni tempo ha la sua musica, quella che si merita e anche quella che vuole. Festival e premi delle ultime settimane l’hanno ribadito: c’è un suono nell’aria, declinato su varie sfumature diverse tra loro, ma anche complementari. Poi, se si ha la voglia di andare a grattare un po’ sotto la superficie, emergono le motivazioni di questa omogeneità. Agli ultimi Grammy, ad esempio, la performance salutata alla fine da maggiore successo è stata quella dell’artista che per un pelo non ha vinto il premio per il talento emergente (andato a Chappell Roan), ovvero Benson Boone, un 22enne della provincia occidentale, dalla dubitabile acconciatura ma dalla prepotente presenza scenica, condita di capriole e salti mortali e di un memorabile completino celeste di strass. Boone viene dai talent americani, ha una gran voce di impronta country, ha messo a segno una potente hit, “Beautiful Things”, che adesso sta già replicando, e suona magnificamente in sintonia coi tempi dell’insediamento di Trump e per i numeri presidenziali in prime time. Per carità, mica ipotizziamo che Benson sia un supporter Maga: solo che la sua musica contiene palesemente il sapore di questi tempi americani, li fa risuonare dentro un’autoradio o in una cuffietta e così facendo lo trasforma in una star istantanea.
Stessa cosa capita alle nostre latitudini: prendiamo Damiano David e la sua veloce e sorprendente metamorfosi: il 26enne ragazzo romano per otto anni ha trascinato un piccolo ensemble musicale nato a scuola, fino a diventare la band italiana più famosa nel mondo di tutti i tempi – quei Maneskin che adesso sono messi in standby soprattutto per sua volontà. Forse ce ne siamo giustamente già scordati, ma per un paio d’anni i Maneskin sono stati l’oggetto di un dibattito intransigente tra detrattori, che li dipingevano come futili epigoni di un suono scomparso, riprodotto in forma omogeneizzata, e chi restava ammirato dalla capacità di Damiano, Victoria e soci di adattarsi istantaneamente alla conversione in rockstar versione XXI secolo, con un forte pendant orientato all’immagine, all’interpretazione di un ruolo all’interno del progetto di cui erano il terminale ma non i soli protagonisti.
Con un tempismo degno di ammirazione Damiano, al culmine di una traiettoria che non poteva spingersi oltre avendo esaurito gli obbiettivi, si è staccato dal gruppo come un modulo lunare dall’astronave. Ed è atterrato su un pianeta musicale del tutto differente che però – e questo è il sintomo di un intuito mirabile, da parte sua e di chi lo guida – è in perfetta sintonia con l’atmosfera generale che ora traspare dai consumi del grande pubblico. Sfruttando doti vocali e interpretative rispettabili, ma soprattutto rivoluzionando radicalmente la propria immagine, istradandosi verso una rivisitazione un po’ ironica del modello divistico hollywoodiano, pur con l’approssimazione di questo nostro presente disgraziato, ha rimesso sugli scaffali un Damiano David nuovo di zecca, dotatissimo di prospettive internazionali e con un sentiero intuibile nell’area del pop (abbastanza) sofisticato.
Una conversione che è stata celebrata con successo dalla sua apparizione sanremese e che ora depone un nuovo singolo, “Next Summer”, una notevole ballata romantica (date un’occhiata anche al curioso videoclip “carcerario”), cantata con voce opportunamente spezzata dalle emozioni, che ha le carte in regola per diventare un successone. E, a ben guardare, il nuovo Damiano David – con questo aplomb sofferto, da uomo adulto, uscito da esperienze dure e importanti, è terribilmente più adeguato al mercato contemporaneo del ragazzo un po’ poseur che pilotava l’audace, ma talvolta tentennante, avventura musicale dei Maneskin. In sostanza l’operazione di restyling di Damiano è stata portata a compimento con competenza e prospettiva e ora gli orizzonti dell’artista sono rosei, sempre col solito contorno di echi social a fungere da camera di risonanza.
Ma c’è qualche altro motivo che connette queste due storie dell’ultimo pop, con Boone e David nei ruoli principali? Certo. Un nome: Jason Evigan, quarantenne produttore californiano di primo piano, che è alle spalle di entrambi gli artisti, congiungendo un prodotto del quartiere romano di Bravetta con l’area suburbana di Seattle, attraverso l’accurato dosaggio di ingredienti musicali, di spettri interpretativi e perfino di gestione del fattore emotivo dei pezzi che predispone per loro. Non c’è da stupirsi di uno scenario del genere: in fondo strategie del genere sono sempre esistite, anche se meno evidenti nel percorso delle stelle del pop. Il dato interessante è che la capacità di questi due cantanti (e di altri con loro) d’apparire così in sintonia coi tempi, coi desideri in circolazione, con le atmosfere dominanti, discende dall’operato di un moderno stregone, capace di cogliere la direzione dei venti e d’inserire nel flusso il suono giusto. Qualcosa che consola, rassicura ed emoziona. E che ci dà l’illusione che in fondo tutto va bene e siamo ancora ben vivi, nel gioco delle parti.