Il Vannacci di Trump. Chiacchiere ferroviarie con l’inviato speciale della Casa Bianca in Italia, Paolo Zampolli

Era noto soprattutto per essere colui che ha presentato Trump e Melania ma ora ha un ruolo ufficiale da super ambasciatore. C’è chi dice che sia stato mandato a Roma a badare a “Giorgia”. E infatti, “Sull’Ucraina deve cambiare posizione”. I dazi all’Europa? “L’Italia si faccia furba e spunti condizioni migliori degli altri”. Un po’ paisà, un po’ Soprano, ne ha per tutti

Una cosa divertente (a tratti) che non faro mai più: inseguire il nuovo inviato speciale di Trump in Italia tra Roma e Milano, sul Frecciarossa. Paolo Zampolli, cinquantaquattro anni, italoamericano di successo, fino a qualche anno fa era un personaggio di contorno, noto soprattutto per essere “quello che presentò Trump a Melania”, uno di quegli italoamericani di complemento e di colore decorativi a New York, in cui si incappava nel mondo di prima, quello in cui nessuno poteva pensare che Trump diventasse per due volte un leader mondiale, e uno come Zampolli un potente globale o anche solo regionale.

Ma adesso appunto è appena stato nominato “inviato speciale” da Trump per l’Italia e forse oltre. E’ a Roma per una serie di incontri, ha visto Salvini, è andato da Bruno Vespa e all’ambasciata americana, trovo il suo numero di telefono, mi dice “ah, sono in piscina, al hotel Bulgari, venga qua”, io corro, in quell’avamposto di americani ricchi tra i palmizi e i marmi, ma lui non c’è, è andato “da Ignazio”, dice, intendento il presidente del Senato, e poi “all’ambasciata”, intendendo americana, ma già sta partendo per Milano, io dunque mi butto sul treno a inseguirlo, ovviamente carrozza executive, e lui è tutto contento e pure io, quando mi ricapita. Mi aspettavo grandi scorte e polizie invece il nuovo ambasciatore di Trump viaggia solo, trascinando a fatica un valigione gigantesco come quegli americani che in una settimana visitano Florence, Venice, and the Vatican. Ha anche il collarone per dormire, il tipico cuscino per il collo. Però il suo valigione ha le insegne delle Nazioni Unite perché Zampolli è anche ambasciatore presso l’Onu della Repubblica dominicana, anzi no, controllo meglio, della Dominica (guardo su Wikipedia, isola nei caraibi con 71 mila abitanti). Il doppio ambasciatore americano-dominicano alla stazione Termini è trafelato, abbronzatissimo, ha un completo scuro, e sopra un giaccone di pelle nera. Mocassini Gucci, cintura Hermès, Rolex al polso, una camicia bizzarra con uno squalo ricamato sul colletto e una sfilza di iniziali sulla panza, A.M.B.P.Z., per la gioia di ricamatori newyorchesi (chissà che costi).

Ha anche una spilletta con la bandiera americana e la scritta 47, come la quarantasettesima presidenza del suo amico Donald. Ha un faccione simpatico, un leggero tremore alle mani, assomiglia molto a Silvio Dante, il gestore del locale di spogliarello Bada Bing e amico d’infanzia di Tony Soprano, quello di cui Tony non metterà mai in dubbio la lealtà. Saltiamo su in Executive trascinando il valigione delle Nazioni Unite e ci sediamo, c’è anche Laura Ravetto che ci guarda perplessa, e Zampolli è entusiasta, di quell’entusiasmo americano generalizzato ma in questo caso è entusiasmo mirato e circostanziato, per il momento storico che attraversa, chi glielo doveva dire, e per il mezzo di trasporto. “Ma questo treno è amazing, è pazzesco, sono sedili Frau questi?” chiede. “Ah, che comodo, Matteo mi ha detto che lo porteranno in America e pure in Egitto il Frecciarossa”, dice mentre risponde a continue richieste di interviste. “Aspetta, c’è il New York Times! Hold on, c’è il Washington Post”. Non abbiamo cuore di dirgli che è questo è uno dei pochi Frecciarossa in orario. Intanto si butta sul menu dell’executive. E’ felice. Vuole fare un’esperienza culinaria. “Ma c’è aglio nell’ossobuco? Sono allergico all’aglio” chiede alla hostess (sono le 16.24, ma il doppio ambasciatore ha ancora il jet lag, è appena arrivato in Italia, è distrutto oltre che affamato ed entusiasta). “C’è champagne? Solo Prosecco? Mmm. E’ proprio bello questo treno, ah! Mica come quello per andare a Mar a Lago! da Orlando a Palm Beach ci hanno deviato, ci abbiamo messo tre ore. E da New York a Washington? Ti spari in testa. E i sedili non si possono neanche regolare”.

A proposito, ma il treno a levitazione di Elon Musk di cui si parlava tanto un tempo? “Mah, non se n’è saputo più niente”, fa lui, completamente preso da mille attività, mentre si toglie le scarpe, tira fuori una cravatta dalla borsa e me la regala, così come una spilletta come la sua, risponde a una email della “White House”, assapora il momento di gloria. Dall’America è tutta una richiesta di interviste anche perché è uno dei boss del Kennedy Center, la Santa Cecilia di Washington, luogo di seriosi concerti di musica classica, e invece adesso lui vuole costruirci un porto turistico e pure un palco per sfilate. “Sì, di Valentino, siamo in contatto, era il sarto di mia madre, le ha fatto anche il vestito di nozze”. Racconti dunque di questa infanzia milanese. “Casa in centro, via Borgonuovo, figlio unico, liceo scientifico. Mia mamma era parente di papa Montini. Mio padre muore quando ho 18 anni. Vendiamo tutto alla Giochi Preziosi. Io vado a New York e non sono mai tornato. Milano e l’Italia mi stavano strette”. Il padre possedeva l’azienda di giocattoli Harbert, ricordo ancora lo slogan, “Harbert giochi per giocare”, e produceva tra gli altri il Dolce Forno, quel fornetto arancione con una lampadina dentro che cuoceva dolci in miniatura, versione italiana dell’americano Easy-Bake Oven. Lei ci giocava? “No, mai saputo cucinare, ma mangiavo delle ottime tortine che i nostri espositori facevano alla Rinascente”. Quindi eravate ricchi. “Ricchi”, ride lui. “Per l’epoca sì, ma niente al confronto ai ricchi americani”.

Ecco, a proposito, come sono i ricchi di oggi, i masters of the universe del nuovo mondo che lei rappresenta, rispetto ai borghesi milanesi della sua infanzia? “All’epoca bastava essere milionari, oggi gli zeri sono molti di più”. Però Bezos, Musk, non sono troppo ricchi? Non c’è troppa concentrazione di soldi? Mi guarda con un ghigno. “No, anzi serve da motivazione per gli altri!”. E Musk? “E’ il più intelligente del mondo! Guardi cosa ha fatto coi satelliti.” Poi però, off the record, “è invadente”. E Meloni? A Roma son tutti un po’ preoccupati che lei sia stato spedito a farle un po’ da tutore, che sia venuto a controllare che non sgarri. “Macché, anzi, è stata gentilissima, e la relazione con l’America è buona. E’ l’unico capo di governo che ha già incontrato il presidente Trump tre volte. Anche se questa relazione può sempre migliorare, o peggiorare”, fa con uno sguardo molto Soprano. Sembra un po’ minacciosa messa così. “No, nessuna minaccia, però si può sempre migliorare”, dice lui affrontando un enorme sandwich di Cracco (“c’è troppo pane, niente a che vedere con quelli di Cipriani, signora, please, porti via”). Dicevamo la Meloni. Che potrebbe fare per migliorare? Sempre off the record, fa lui, la questione Ucraina. “La posizione sull’Ucraina della Meloni deve cambiare, non piace al presidente”. E del povero Zelensky che ne facciamo? “Dovrebbe ricostruire lui Gaza con tutti i soldi che si è fregato”. Ammazza. A proposito di Gaza, ha visto il famigerato video con Trump che si fa re della Striscia turistizzata? “No, non ho avuto tempo”. E in generale che ne pensa? “Be’, Gaza ora è distrutta, rasa al suolo, ci vorranno dieci anni per ricostruirla, ma 50 se ci sta la gente in mezzo”. Eh, ma i poveri palestinesi scusi dove li mette? “Il presidente ha un accordo con gli stati vicini per spostarne cinquecentomila. Oggi ho visto l’ambasciatore degli Emirati Arabi ed è d’accordo”. Lei si occuperà anche di Gaza? “No, lì ci sono altre persone di fiducia del presidente”. Quindi lei è incaricato solo per l’Italia? “No, anche per altro, tutto ciò che mi chiederà il presidente. Che poi io gli avevo chiesto un altro incarico, ma va bene lo stesso”. Cioè cosa voleva? Cia? Fbi?”. Ride. Non risponde. Chissà.

E il vero ambasciatore americano in Italia appena nominato, Tilman Fertitta, dev’essere un altro che non è molto contento. Come da tradizione l’ambasciatore a Roma non è un diplomatico di carriera bensì uno dei grandi donatori del presidente, e in questo caso Fertitta è un riccone (10 miliardi di patrimonio) con catene di ristoranti tra le altre cose, “il ristoratore più ricco del mondo”. Lo conosce? “No”. Negli ambienti diplomatici romani raccontano che abbia un enorme yacht e che voglia portarselo in Italia, tenerlo a Ostia e usarlo come sua abitazione – sì, lo so, sono tempi assurdi, ma si era capito ormai – e all’ambasciata e alla residenza diplomatica andarci solo per gli appuntamenti di lavoro. “Ah, che bello Ostia, dicono sia magnifica!” dice Zampolli. Insomma, mica tanto. “Ah no?”, pare deluso, ma si è già distratto, c’è una intervista del New York Times, c’è la Casa Bianca in linea. Senta, ma questa cosa di Trump che ha cacciato le persone trans dall’esercito? “Giusto”. Ma che male fanno, scusi? “Ma i trans devono stare… non so… nella moda, fare quelle cose da froci. I froci devono fare le sfilate, mica i militari. Al Parco Sempione, ecco. I trans devono stare lì. Quelli pigliano gli ormoni, non li voglio a guidare un carrarmato, c’è un lavoro per tutti, facciano gli stilisti”. Madonna. Forse devo prendere un prosecco anche io. O due. Torniamo alle origini che è meglio.

Dopo il Dolce Forno, la Dolce vita newyorchese. “Apro un’agenzia di modelle e divento subito uno dei primi 10”. E poi l’incontro con Melania Trump, incontrata proprio a Milano, e che lui porterà a New York. “Sì, una donna eccezionale, parla italiano e altre quattro lingue. La più grande first lady che ci sia mai stata”. Ma è vero che in realtà si odiano col presidente? “Macchè, tutte balle”. Il presidente, come lo chiama lui, l’ha conosciuto da Cipriani, nome che ripete varie volte, poi entrano in affari insieme e anche adesso hanno un rapporto di lavoro. Lei dopo le modelle e l’attività immobiliare si occupa di “business development” per Trump. Ma non c’è conflitto di interesse? “Il dipartimento di Stato sta cercando di capire come fare. Io questo lavoro di ambasciatore poi lo vorrei fare gratis, perché sa, alla Casa Bianca c’è il tetto di 180 mila dollari annui di compenso, e che ci faccio? Ne pago 160 di Imu, tra la casa di New York, quella di Milano, quella di Washington e quella di Miami”. Pure Miami. “Sì, ormai quello è il centro del mondo, la Florida, tutti vanno lì”. Trump si ricandiderà? “No, non può”. Meno male, almeno questo. “C’è Vance, però, il vicepresidente”. Com’è? “Adorabile. La moglie verrà la settimana prossima in Italia per le Paralimpiadi di Torino”.



Intanto siamo fermi dalle parti di Rogoredo, l’annuncio dice: “stiamo attendendo l’autorizzazione a entrare in stazione”. “What’s autorizzazione?”, fa lui, e in effetti vai a spiegare a questi disruptor che puntano a Marte la burocrazia degli annunci ferroviari italiani. Forse dovremo rivalutare gli annunci del Frecciarossa come baluardo democratico? Tornando all’epoca d’oro, ho letto che a un certo punto mise delle modelle a vendere le sue case. “Sì, delle supermodel”. Funzionava? “Molto”. Ha anticipato i tempi, oggi ci sono gli agenti immobiliari influencer. “Ma io sono sempre stato in anticipo sui tempi” dice lui tutto contento. Ha mai pensato di fare dei programmi tv? “Mi avevano proposto, ma no”. Ha visto The Apprentice, il film su Trump? “No”. Cosa guarda in tv? I Soprano? “No. Mi piaceva molto Homeland”. E Roy Cohn, l’avvocato luciferino che fece da mentore a Trump, l’ha mai incontrato? “No, mai”.

Senta, e Roma la conosce? “Poco, pochissimo”. Prenderà casa? “No, ho già casa a Milano e starò lì. Farò avanti e indietro con questo treno stupendo”. Ogni quanto verrà in Italia? On demand? “On need, al bisogno”. La hostess del Frecciarossa è felice perché non ha mai avuto un viaggiatore così gioviale. Porti anche il risotto.



Intanto telefonate, bocconi, messaggi. Tira fuori dal valigione delle Nazione Unite il collarone per dormire. Anche lei è ghiotto di Diet Coke, come il presidente. “No, io preferisco la Coca Zero”. All’ambasciata americana sono stati gentili? “Molto, molto carini, E’ bellissimo quel palazzo! Pure quello del parlamento è stupendo, gorgeous! (è un attimo che questi lo trasformano in albergo). A Roma ha visto Andrea Stroppa, l’inviato di Musk? (quanti inviati speciali, a Roma, di questi tempi). “No”. Il Papa non l’avrà incontrato immagino. “No, ma ho pregato molto per lui”. E’ credente? “Mah”, fa lui poco convinto. Lei vota in Italia o in America? “Non sono mai stato molto interessato alla politica. Comunque voto in tutte e due, ho la doppia nazionalità”. E cosa vota? “Sempre a destra”. “Repubblicano in America” e in Italia cosa? Tipo Msi? An? “Boh, non so”, risponde, con la praticità di questo nuovo tipo antropologico d’americani. Secondo lei cosa dovrebbe fare l’Italia per essere più competitiva? “Essere amica dell’America. Ecco cosa fanno gli alleati”. E l’Europa? “America first”.



Che poi lei è ambasciatore della Dominica alle Nazioni Unite, ma non è manco residente là, come funziona? Vengono in mente certi ambasciatori tropicali alla Pupi d’Angeri. “Per meriti, ho costruito laggiù un hotel da 190 milioni di dollari”. Pure sua moglie è ambasciatrice, dello stato sempre caraibico di Grenada (questo, 117 mila abitanti). “Non è mia moglie, è la mia ex compagna, la madre di mio figlio Giovanni, che ha 15 anni. Che studia? “Boh, quelle cose che studiano i ragazzini americani”. Quindi lei ora è single. “Sono sul mercato!”, dice lui contento. Chissà che profferte. “Mai sposato. I matrimoni sono i funerali delle relazioni”. E i dazi? Sono il funerale dell’Europa? “Ah, i tariffs sono una delle parole preferite del presidente. Credo che la sua parola preferita sia tariffs, poi ora ha messo prima God, dio; poi business; poi family, tariffs, vengono solo al quarto posto”. Ma se davvero metterà il 25 per cento di tassa sulle importazioni europee, che deve fare la povera Europa? “L’Italia deve farsi furba e trattare condizioni migliori degli altri”. “Mi porti un altro cornettino al cioccolato! Ben caldo” dice alla hostess del Frecciarossa. Poi finalmente crolla addormentato, siamo arrivati Milano, e l’America non è mai parsa così lontana e pericolosamente vicina allo stesso tempo.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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