L’errore “felice” e “provvidenziale” favorisce l’immaginazione e ci ricorda che la verità è plurale. “Refusi. Scritti sull’errore tipografico”, è la deliziosa raccolta di elzeviri di Alberto Savinio curata per Elliot da Antonio Castronuovo
In un suo ritratto di Vincenzo Gemito, Alberto Savinio cita l’errore “ispirato” che nel registro anagrafico trasformò “Genito” in “Gemito”, cognome adatto a un artista dalla vita dolorosa. Ma come c’informa nella “Nuova enciclopedia”, il correttore di bozze ha poi uniformato “Genito” a “Gemito”, privando di senso il discorso: e questo è invece l’errore dannoso tipico di un’“istruzione zoppa”. Oggi possiamo rileggere la vicenda in una deliziosa raccolta di elzeviri saviniani sugli “Errori” curata per Elliot da Antonio Castronuovo. Se Savinio ha una passione per le etimologie fantastiche e per le freddure, Castronuovo è soprattutto un bibliofilo attratto dal diavolo dell’imperfezione tipografica che insidia da sempre la scrittura: degli amanuensi, degli stampatori, dei programmi informatici. Un diavolo che titilla l’intelligenza suggerendo interpretazioni inaspettate, e che è dunque parente delle moderne poetiche dell’infrazione linguistica. Queste poetiche, però, sono già un discutibile tentativo di addomesticare gli “incontri fortuiti” tra parole, che secondo il greco Savinio vanno al contrario accettati come doni divini: è il tratto che lo divide dai suoi fratellastri surrealisti, gli antenati del correttore automatico.
L’errore “felice” e “provvidenziale” favorisce l’immaginazione, vendica la rigidità di certi eruditi, e ci ricorda che la verità è plurale. In uno dei pezzi scelti da Castronuovo, Savinio racconta la sua lettura di un fascicolo della “Critica”, la rivista di quel Croce che gli appare di solito troppo ovvio. A un certo punto vi trova una frase in cui si dice che la verità è rivelata alle anime “fortement trompées”, fortemente ingannate: e ha un attimo di euforia, subito prima di accorgersi che è un refuso per “trempées”, temprate. Anche pescando dall’opera saviniana rimasta fuori dalla raccolta, i casi simili si potrebbero moltiplicare con facilità: si veda ad esempio quello dell’enciclopedia in cui Savinio legge che Prometeo significa “Presidente”, anziché “Previdente”, e pensa che in fondo è giusto, perché il mitico personaggio fu davvero “il consigliere delegato dell’umanità”. Per lui gli errori non sono né tutti riconducibili a istinti umani (Freud) né a distrazioni (Timpanaro). Non di rado li considera uno sforzo che le parole stesse fanno per emanciparsi – magari attraverso la macchina da scrivere – dalla tiranna dell’uomo. E’ un animismo che fa capolino anche nel pezzo in cui Savinio interpreta una macchia sulla pagina come un cancro della carta.
Diversamente ampio è poi il tema che accomuna i due articoli che incorniciano il libretto. Nel primo l’autore afferma che la tipografia più bella è la più chiara, “che non frappone bizzarrie e lussi grafici fra l’occhio del lettore e l’intelligenza della cosa scritta”. Rifiuta, cioè, sia l’estetismo degli svolazzi liberty sia quello dei caratteri ascetici da stile Novecento: un’opinione che va associata alla concezione saviniana della prosa come “incolore messaggera dell’idea”, e dell’idea stessa come risorsa “tascabile” da cui l’uomo non deve lasciarsi fanatizzare, come non deve lasciarsi schiacciare dai volumi troppo grossi. Quanto all’ultimo elzeviro, gli strafalcioni di un cronista radiofonico che cerca di graduare i superlativi offrono qui a Savinio l’occasione per un ragionamento sull’eccessiva solennità o nettezza dell’italiano, che a differenza di altre lingue (ad esempio il “romantico” inglese) non conosce lo sfumato. Il cronista, nel suo torto, ha dunque un po’ di ragione: come spesso l’hanno gli inventori davanti ai pedanti che ex post fanno della grammatica un feticcio. A noi, che nel panottico del Ventunesimo secolo temiamo sempre di essere impiccati a qualche errore di forma, Savinio insegna bene a liberarci di questa paura meschina – una paura che impedisce d’imparare e di scoprire il mondo.