L’accorato appello di registi e attori per l’emergenza nella capitale fa sorridere in confronto alle svolte della Casa Bianca
In una fase di recupero urbanistico importante ma non travolgente, caratterizzata anche da operazioni sul patrimonio pubblico, arriva un po’ come una lettera di Elon Musk la mobilitazione internazionale, guidata da un manipolo di registi americani seguiti da intellettuali di varie origini, per sferzare il disinteresse di chi non coglie l’avviamento di Roma verso la “desertificazione intellettuale” e “il tentativo di riconvertire spazio destinato al possibile rinascimento culturale della Città Eterna (maiuscolo nell’originale) in hotel, centri commerciali e supermercati”.
Tutto, come sempre, “inaccettabile” ma anche, con slancio, definito “una perdita irreparabile e un profondo sacrilegio non solo per la, ricca storia della città ma anche per il patrimonio culturale da lasciare alle future generazioni”.
L’invettiva è debole nello stile, con tutta la sciatteria delle perdite sempre “irreparabili” e la banalità decretata dallo scorrere del tempo per cui i patrimoni a cui si lasciano se non alle future generazioni, è ed è debole nell’analisi, pur citando un nome come Renzo Piano, da cui i registi, l’ultimo ad aderire è stato Spielberg e il penultimo Scorsese, dicono di aver attinto l’analisi sui rischi di Roma. Degli hotel non risultano grandi investimenti per l’accoglienza in spazi destinati al possibile “rinascimento culturale”. È di questi giorni una notizia proprio nel senso opposto con il ritorno imminente del cinema “Fiamma alla sua funzione”.
I supermercati e i centri commerciali hanno toccato da tempo un picco di sviluppo e, semmai, vanno un po’ in ritirata. Nessuno di essi è nel centro storico o a ridosso delle tante zone storicamente o archeologicamente tutelate. Insomma, l’appello sembra un precotto, una roba pronta da tirar fuori per fare un po’ di scena. E anche per questa caratteristica sono parole che suonano un po’ inopportune in bocca a intellettuali capaci di grande effetto sul vasto pubblico. Perché uno ora se li immaginerebbe e li vorrebbe tutti impegnati con faccende come l’attacco alla democrazia americana da parte del presidente in carica a Washington (non a Roma) lo smontaggio della costituzione americana, la diffusione del disprezzo per le istituzioni, la distruzione dell’ordine mondiale basato sulla difesa della libertà. Non servono espressioni ironiche (per altro riciclate) per descrivere con le parole tutta questa roba che dovrebbe preoccupare e mobilitare. Sono servite invece agli autori del testo di accusa per Roma. Con poco umorismo hanno parlato di “cattedrali nel deserto” per additare questi casi di rigenerazione mal fatta.
A Roma, insomma, non è espressione super felice, vince il campionato dell’ambiguità e della confusione delle carte. A memoria c’è sì un albergo in una basilica, non in una cattedrale. In una parte del complesso di Santa Croce in Gerusalemme c’è l’ottimo hotel gestito dalla chiesa che si chiama, superando le gelosie dei successivi occupanti, Domus Sessoriana, perché c’era il palazzo del Sessorium, nome da brivido hot ma malinteso, dove viveva Elena la madre di Costantino. Lì effettivamente ci sono stanze, a prezzo da pellegrini, ma non c’è il deserto. Il resto della città e specialmente del centro è travolto semmai dal piccolo commercio disordinato, in cui si vende robaccia senza alcun valore locale.
La lamentela ha senso in quel caso, ma, insomma, è proprio una minuzia, su cui mai ci saremmo attesi che potesse posarsi lo sguardo di condanna dei registi presi più da Roberto Gualtieri che da Donald Trump.