L’unica esperienza di meticciato globale, circumnavigata dalla principessa Leonor e oggetto dell’esordio muscolare del tycoon. Storie lungo il filo teso sull’Atlantico
La principessa, il presidente e l’America ispanica. Il gran teatro del mundo, per dirla con Calderón de la Barca, gesuita, soldato e drammaturgo, l’ultimo grande interprete dell’età dell’oro della Spagna. Il palcoscenico della hispanidad, eredità controversa al tempo del revisionismo postcoloniale.
Certo, la Conquista spagnola non fu un pranzo di gala. “Ma integrò l’America all’occidente. All’eredità greca, romana, del Rinascimento e del Siglo de Oro”, afferma lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010. “A differenza di altre conquiste che non furono meno feroci, ma non lasciarono nulla di buono ai popoli conquistati”.
La hispanidad, dunque. Che è la scena in cui al momento si muovono e rappresentano i loro ruoli la principessa delle Asturie, erede al trono di Spagna, e il presidente degli Stati Uniti. Come se le circostanze e l’attualità suggerissero un filo comune tra due esistenze che non potrebbero essere più diverse.
Ecco Leonor di Borbone, 19 anni forgiati da un’educazione di ferro come corrisponde a una futura regina, capo di stato per successione dinastica. E’ lei il miglior biglietto da visita per la continuità della monarchia, il Santo Graal della corona di Spagna. La ragazza merita. Bella davvero, occhi blu e chiome color miele. La versione più attuale delle principesse delle fiabe. E’ anche di gentile aspetto, Leonor. Mai un capello o una parola fuori posto. Capita di incontrarla in luoghi pubblici, al di fuori dei ranghi ufficiali. Magari le viene chiesto se sia proprio lei la principessa delle Asturie. Lei sorride e non nega né afferma: “Può essere”. Sorride sempre, Leonor. Anche quando si afferra alle vele a picco sul mare, lustra paratie o si arrampica sulle sartie dell’albero più alto della goletta Juan Sebastián de Elcano, la nave scuola della Marina spagnola su cui al momento naviga intorno all’America latina. Un addestramento durissimo, turni di notte e lezioni teoriche e pratiche di giorno, come qualsiasi altro guardiamarina della Armada, più di settanta tra ragazzi e ragazze quelli imbarcati con lei. La casa reale assicura che Leonor non avrà nessun trattamento di favore nei cinque mesi a bordo.
Dall’Atlantico al Pacifico, passando per lo Stretto di Magellano e l’Antartide cilena. Per poi tornare a navigare nell’Atlantico attraverso il Canale di Panama nel Centro America. Di fatto, il periplo della hispanidad. Che è il viaggio di formazione per eccellenza dell’erede della corona di Spagna. La stessa rotta su cui si cimentarono nel 1987 il re suo padre, Felipe VI, allora principe delle Asturie. E prima ancora, nel 1958, suo nonno Juan Carlos, re emerito da quando ha abdicato poco più di dieci anni fa.
L’erede al trono di Spagna sulla goletta Juan Sebastián de Elcano, un addestramento duro. Dall’Atlantico al Pacifico per lo Stretto di Magellano
Proprio Felipe VI ha ricordato l’importanza della circumnavigazione della hispanidad giorni prima che la principessa prendesse il largo col favore degli alisei, i venti che dalle Canarie spingono verso le Americhe. L’occasione è stata la celebrazione della Pascua Militar, che è apertura solenne delle liturgie della casa reale di Spagna per l’anno in corso. Davanti alle più alte cariche dello stato e delle forze armate, Felipe VI si è rivolto direttamente a lei, figlia primogenita. “Imparerai, mi querida Leonor, a conoscere il continente americano, i suoi paesi, le sue coste, le sue culture. Tale è l’impronta della Spagna che ti insegnerà molto su ciò che fummo. E ancora siamo”.
Dall’altra parte dell’Oceano c’è Donald Trump, 78 anni, personalità debordante come poche, presidente degli Stati Uniti d’America, massima potenza mondiale e massima influenza culturale sull’occidente. Presidente repubblicano al secondo mandato non consecutivo, fermamente convinto, insieme con i suoi elettori e sostenitori, di essere stato defraudato del voto del 2020 che consegnò il paese al democratico Joe Biden. Forse è per questo che mostra un volto perennemente corrucciato. Come un novello Zeus americano, il dio padre sceso dall’Olimpo per dispensare tempeste e scagliare fulmini sul mondo degli umani.
Al momento alcune folgori sono arrivate all’Artico, passando per il Canada. Molte sono cascate a sud del continente americano. E hanno colpito al cuore non solo singoli paesi del Centro e Sud America, ma anche la hispanidad. E’ il caso dell’annunciato cambio di denominazione del Golfo del Messico in Golfo d’America. “Perché suona meglio”, ha affermato Trump di primo acchito, durante il discorso di insediamento alla Casa Bianca. Per poi aggiungere in un executive order presidenziale di volere onorare il “contributo visionario dei patrioti (nord)americani alla nazione”.
I messicani, ma anche gli spagnoli, non hanno apprezzato: “La decisione unilaterale di Trump di ribattezzare il golfo è politicamente rilevante e palesemente ostile a lo hispánico”, hanno sintetizzato i giornali. “Un atto di potere che tocca anche la storia e l’identità del Messico”. Certo, la forma è sostanza. Con l’arrivo dei conquistadores nel XVI secolo il golfo si chiamò prima de Nueva España e, poi, de Mexico, l’attuale denominazione. Ma poiché nomina sunt consequentia rerum, cambiare nome significa ridefinire prospettive spazio-temporali. Significa riscrivere la narrazione rispetto alla spedizione di Hernán Cortés, l’hidalgo che “sottomise imperi crudeli”, per dirla con Borges. E lo fece quando il Messico ancora non esisteva come entità territoriale. Figuriamoci gli Stati Uniti.
Sia chiaro, non è che Trump ce l’abbia coi latinos degli Stati Uniti, il secondo gruppo etnico del paese, quasi sessanta milioni di cittadini che parlano anche spagnolo – talvolta solo spagnolo – e hanno contribuito, eccome, alla sua elezione. Tutt’altro. Il suo segretario di stato è Marco Rubio, nato a Miami nel 1971 da genitori fuggiti via da Cuba. Il senatore Rubio, dapprima neocon e poi folgorato dal trumpismo, è il primo latinoamericano a ricoprire la carica di segretario di stato nella storia statunitense.
Il fatto è che The Donald in versione 2.0 ha avuto un esordio a dir poco muscolare col mondo ispanico. Con critiche alla Spagna perché investe poco nella difesa della Nato, “manco fosse un paese del gruppo Brics”. Con mire espansionistiche sul Canale di Panama. Con le frontiere del Messico blindate per impedire narcotraffico e flussi migratori. Con lo scontro col presidente della Colombia Gustavo Petro sui migranti sin papeles in territorio Usa. Scontro vinto da Trump in un batter d’occhio. Il tempo di far balenare ai colombiani il rischio di incorrere in dazi tali da mettere in ginocchio la loro agricoltura tropicale e ciò che esportano negli Stati Uniti. Inutilmente Petro ha provato a fare resistenza. Giusto la durata di un lungo, appassionato post sul social X, proprio quello di Elon Musk, al momento forse il migliore amico di Trump. “Il nostro sangue proviene dal Califfato di Cordoba, la civiltà del tempo”, ha twittato Petro. “Dai latinos di Roma e del Mediterraneo. Quelli che fondarono la repubblica, la democrazia. Il nostro sangue si è mischiato con i forti neri che proprio voi avete reso schiavi. La Colombia è il primo territorio libero d’America, di tutta l’America, ben prima di Washington”. Così ha scritto. Poi ha capitolato. Senza condizioni. Non è un caso, però, che Petro abbia fatto ricorso al mito delle origini, “alla Spagna dell’Islam e della cabala”, narrata da Borges. “Alla Spagna degli inquisitori che patirono il destino di essere carnefici e avrebbero potuto essere martiri”.
Il presidente Usa contro Gustavo Petro, che ha risposto parlando del “Califfato di Cordoba”, dei “latinos di Roma e del Mediterraneo”
Si sa che Borges da bambino a casa, nel quartiere Palermo di Buenos Aires, parlava anche inglese con la nonna. Questa frequentazione bilingue gli aveva fatto coltivare l’idea di una certa “superiorità” dell’inglese per la varietà di termini sia di origine germanica che latina. Eppure Borges scelse di scrivere in spagnolo. E creò una delle produzioni letterarie più vaste ed eclettiche della letteratura ispanica. Lui stesso spiegò la “scelta spagnola” nella raccolta di racconti L’Aleph pubblicata nel 1949. Partendo dal presupposto che “ogni linguaggio è un alfabeto di simboli, il cui uso implica una memoria condivisa”, Borges afferma di voler trasmettere “l’infinito Aleph”, che è il seme primordiale di una comunità, la memoria “di ciò che fummo, e ancora siamo” per usare le stesse parole indirizzate dal re Felipe VI all’erede Leonor.
La hispanidad, dunque. Che è quell’intreccio di sangue e culture iniziato con la scoperta del nuovo mondo e favorito già dalla cattolicissima regina Isabella di Castiglia nel finanziare le imprese di Colombo. Ed è l’unica esperienza di meticciato globale, organico, di cui abbiamo testimonianza nell’età moderna. Il retaggio dell’impero su cui, ai tempi di Carlo V, non tramontava mai il sole. Una vicenda durata secoli, carica di implicazioni politiche e religiose. Furono gli spagnoli, nel bene e nel male, a volere cristianizzare il continente e a importare le forme dello stato nelle terre del nuovo mondo, amministrate come province della corona di Spagna. “La hispanidad è figlia del Siglo de oro”, sottolinea il politologo colombiano Mauricio García Villegas. “Siamo fratelli nel barocco. Nell’adattare i fatti all’immaginario, alle proprie ossessioni. Per questo l’America latina genera populismo e utopie. Poi finite spesso in sangue e tragedia”.
Comunque sia, la hispanidad continua a riguardare centinaia di milioni di donne e uomini uniti dallo stesso idioma di qua e di là dell’oceano. Lo spagnolo è la seconda lingua al mondo per numero di parlanti nativi. “Una lingua globale per mercati globali”, sostiene l’economista José Luis García Delgado nel libro Los futuros del español, appena presentato all’Istituto Cervantes di Roma diretto dallo scrittore e giornalista Ignacio Peyró. “Una comunità in crescita esponenziale nelle Americhe. Compresi gli Stati Uniti dove nel 2050 ci saranno cento milioni di parlanti spagnolo”, commenta lo stesso re di Spagna Felipe VI, sempre all’Istituto Cervantes, questa volta a Madrid, durante un intervento in cui si dichiara “sorpreso” dalla decisione “sicuramente temporanea” di Trump di chiudere la versione spagnola del sito della Casa Bianca.
Certo, è curioso notare che il concetto di hispanidad come valore identitario abbia preso forma proprio quando la Spagna aveva già perso le ultime giurisdizioni d’oltremare, Cuba, Portorico e le Filippine. Accadde nel 1898, in seguito alla Guerra ispano-americana combattuta contro gli Stati Uniti. Conflitto rapido, finito con la disfatta della Spagna. E con la nascita dell’imperialismo made in Usa.
L’umiliazione della sconfitta, con le sue ricadute economiche, diventò tragedia in Spagna. Disincanto. Annichilimento. Come se il paese, assieme alle ultime vestigia oltremare, avesse perso anche l’identità. In compenso el desastre del ‘98 – questa la sintesi dei libri di scuola – ebbe il suo contraltare in una generazione di intellettuali, talvolta anche politici, capaci di formidabili analisi intorno alla Spagna, alla lunga avventura che aveva “svelato i mari” e conquistato l’occidente. Furono autori del calibro di Unamuno, Machado, Ramiro de Maeztu. Benché fossero molto diversi per formazione e produzione letteraria furono etichettati come generación del ‘98.
A loro si deve la riscoperta della hispanidad, un termine antico, già caduto in disuso nel corso del XIX secolo. Fu Unamuno a rispolverare il concetto nel libro En torno al casticismo del 1902, una raccolta di saggi proiettata a indagare sul futuro della Spagna e sulla sua proiezione europea in seguito agli avvenimenti del 1898.
Ma la vera chicca emerge come per caso dal web. Si tratta di un articolo scritto da Unamuno nell’agosto del 1927 durante le vacanze negli amati Paesi Baschi e pubblicato a novembre da Síntesis, influente rivista argentina dell’epoca. Un periodico di Buenos Aires in cui lavorava, per somma coincidenza, l’allora giovane Borges. Titolo, Hispanidad. “Che non è Españolidad”, esordisce Unamuno. “Perché non alla Spagna voglio riferirmi ma alla Hispania romana, alla Hesperia greca, a un territorio dell’anima, dove la lingua è un sentimento comune, una filosofia, perfino una metafisica”. Per Unamuno Cartesio sta alla Francia come Hegel alla Germania. E la Spagna? La Spagna abita nel Don Chisciotte di Cervantes, cavaliere errante e cristiano, sempre sospeso tra realtà e finzione, nel teatro di Calderón de la Barca, nel suo capolavoro La vida es sueño, nei mistici del Cinquecento, Teresa d’Avila e Juan de la Cruz, in Ignacio de Loyola, soldato e santo, fondatore della Compagnia del Gesù.
Hispanidad, scrive Unamuno è “categoria storica, quindi dello spirito, la quale nell’unità ha realizzato la sintesi di un territorio e dei suoi contrasti”. E aggiunge: “Non c’è unità viva senza lotte intestine. L’unica guerra feconda è la guerra civile, quella tra Caino e Abele, tra Esaù e Giacobbe. Non guerra tra fratelli, ma guerra tra gemelli”. Certo, fu proprio Unamuno a individuare nel cainismo un tratto distintivo del carattere ispanico. Ciò che scrisse nel 1927 rimanda a quello che avrebbe detto nove anni dopo a Salamanca, da rettore dell’università più antica di Spagna. Era il 12 ottobre del 1936, anniversario della scoperta di Colombo, da sempre festa nazionale in Spagna e in molti paesi dell’America ispanica. Nell’aula del Paraninfo si inaugurava l’anno accademico e insieme si commemorava el día de la Hispanidad ovvero el día de la Raza, definizione allora di uso comune. Salamanca era già in mano falangista, una delle prime città spagnole a cadere dopo lo scoppio della Guerra civile nel luglio del 1936.
Unamuno era filosofo, politico, scrittore, drammaturgo, poeta. Il suo influsso sul Novecento letterario aveva da tempo valicato i confini della Spagna. All’inizio aveva appoggiato il golpe nazionalista. Poi il convincimento era scemato. Quando vide i generali franchisti accampati nell’aula magna della “sua” università, non si poté trattenere e scandì: “Vincerete, ma non convincerete. Per convincere bisogna persuadere”.
Per Unamuno “Hispanidad” è una categoria “dello spirito, la quale nell’unità ha realizzato la sintesi di un territorio e dei suoi contrasti”
Intorno al 5 giugno Leonor di Borbone approderà al porto di New York, ultima tappa del periplo americano prima del ritorno in Spagna. Chissà se verrà ricevuta dal presidente Trump. Come accadde nella primavera del 1987 con Ronald Reagan a suo padre Felipe, allora bellissimo adolescente avvitato nella divisa candida dell’Armada. Le cronache raccontano che l’allora principe delle Asturie ebbe appena il tempo di porgere a Reagan una lettera stilata da suo padre, il re Juan Carlos. Otto minuti di colloquio. Una stretta di mano e via.