Dazi, imprese, Kyiv, migranti, difesa e psicodrammi nei partiti. Il punto di riferimento fortissimo dei patrioti è diventato un elemento di imbarazzo assoluto. Strade per uscirne, scelte necessarie e gran trollaggi di Mattarella
Nel paese di Ennio Flaiano, nel paese cioè in cui anche le situazioni politiche più gravi non riescono mai a essere fino in fondo serie, spesso è difficile prendere sul serio i problemi reali, perché ogni volta che un problema reale si propone di fronte allo sguardo dell’osservatore, un istante dopo essersi manifestato diventa spesso qualcosa a metà tra una mezza tragedia e una mezza farsa. Anche nel caso del trumpismo, anche nel caso delle conseguenze del trumpismo sul nostro paese, l’impressione è che l’Italia politica che si riconosce nel governo stia vivendo ore che si trovano a metà tra la farsa e la tragedia.
L’elemento politico più interessante, che non sappiamo dire se rientri più nella categoria di ciò che è grave o più nella categoria di ciò che non è serio, riguarda un imbarazzo insieme assoluto e spassoso con cui da giorni si ritrovano a fare i conti tutti coloro che hanno trasformato Donald Trump nel punto di riferimento fortissimo dei patrioti italiani. L’imbarazzo si presenta in forme diverse, ma tutte meritano la dovuta attenzione. L’imbarazzo più importante, insieme grave e serio, è quello che riguarda il senso più profondo della sfida lanciata da Donald Trump ai governi europei. Ogni singola mossa portata avanti dal presidente americano, rispetto alle partite europee, è stata una mossa che ha messo a dura prova il patriottismo dei patrioti, il sovranismo dei sovranisti, il nazionalismo dei nazionalisti, e quello che i fratelli di Trump non sono ancora riusciti a metabolizzare è che oggi per difendere l’interesse nazionale italiano c’è solo un modo ed è l’esatto opposto di quello teorizzato in questi mesi dai follower del trumpismo: non assecondare l’agenda Trump, che i patrioti amano, e cercare invece di difendere i propri interessi puntando sull’agenda europea, che i patrioti non amano.
Vale sui dazi, naturalmente, che rappresentano un imbarazzo doppio per i fratelli di Trump: da un lato, perché, minacciando le esportazioni, il presidente americano minaccia anche la crescita italiana, e dall’altro lato perché, prendendo di mira le esportazioni italiane, il presidente americano punta ad aggredire anche gli imprenditori del nostro paese, molti dei quali negli ultimi anni hanno cominciato a osservare il governo Meloni con simpatia.
Vale su questo, dunque, ma vale anche su molte altre partite, su cui i patrioti, quelli veri e quelli presunti, sono stati messi in mutande dal trumpismo, senza aver avuto ancora la prontezza di trovare un indumento valido per coprire i propri peccati. Trump ha costretto il centrodestra, non esattamente una falange unita nel sostenere la necessità di investire di più nella Difesa, a fare i conti nei prossimi anni con un aggravio di spese militari (senza aumentare le spese nella Nato non ci sarà più l’ombrello americano, ha detto Trump) e con un possibile dispiegamento di forze anche italiane per proteggere il futuro confine tra Ucraina e Russia, cosa che i sovranisti italiani si sarebbero tranquillamente risparmiati. In più, politicamente parlando, l’arrivo di Trump ha creato problemi su problemi a un governo, come quello italiano, che con il presidente americano vanta rapporti strettissimi, “speciali”. Con la demonizzazione dell’Ucraina, e in particolare del presidente Zelensky, demonizzazione che ieri ha avuto una puntata in più con l’incredibile e osceno tentativo del presidente americano di umiliare Zelensky alla Casa Bianca (l’effetto è stato l’esatto opposto), la posizione di Giorgia Meloni, fuori dall’Italia, si è indebolita.
La premier italiana, come è evidente, ha costruito nel tempo parte della sua rispettabilità e credibilità internazionale anche grazie alle sue posizioni coraggiose sull’Ucraina. Le sue parole, su Kyiv, le hanno permesso di essere percepita, negli anni, come una leader molto diversa rispetto a quella pericolosa che le cancellerie europee si attendevano. Oggi, invece, che Meloni è costretta a difendersi dal trumpismo per rimozione, cioè evitando di parlare, evitando di commentare, dicendo solo lo stretto necessario per apparire coerente, la premier si trova in un equilibrio difficile.
Da una parte, come ricorda spesso Trump e come ha ricordato ieri sul Foglio Joel Kaplan, il numero due di Meta, Meloni ha un rapporto di confidenza reciproca che altri non hanno con il presidente americano. Ma dall’altra parte la premier sa che la sua necessaria prudenza sul fronte americano la può indebolire sul fronte europeo. E in un momento in cui l’agenda Trump rappresenta una sfida unica per l’Europa non è difficile immaginare che nelle cancellerie europee il ponte con l’America diventerà meno importante rispetto a chi in Europa stabilirà la linea su come arginare il trumpismo. E chi stabilirà quella linea, già oggi, appare chiaro: la Germania di Merz, la Francia di Macron, il Regno Unito di Starmer, la Polonia di Tusk. Almeno per il momento, il punto di riferimento fortissimo dei patrioti e dei sovranisti europei non ha messo solo in imbarazzo i follower del trumpismo – epico è stato ieri il virgolettato raccolto sul Giornale da Augusto Minzolini, che ha riportato le parole del capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari, secondo il quale “il problema della Lega è che la politica estera la fa solo lui (Salvini) anche se il novanta per cento del partito non la condivide” e secondo il quale “purtroppo le conseguenze della politica trumpiana non ricadono sui partiti ma sul paese” – ma li ha anche messi in una posizione difficile tra i propri partner, i propri alleati e i propri vicini di banco. Una posizione che grosso modo potremmo sintetizzare così: accettate il mio ricatto, e mi aiutate a dividere l’Europa, oppure accettate di combattere contro l’America, e da miei amici del cuore diventate osceni europeisti nemici di Trump.
A questi imbarazzi, poi, se ne aggiungono degli altri evidenti, per tacere quelli che riguardano i singoli partiti della coalizione, dove le accuse di filotrumpismo eccessivo sono ormai all’ordine del giorno (vedi Marina Berlusconi), e questi imbarazzi sono di altri due tipi. In primo luogo, vi è un imbarazzo politico e strategico del governo nel rapporto con Elon Musk, i cui investimenti in Italia si sono bloccati per questioni di opportunità (il referente di Musk in Italia, Andrea Stroppa, ha criticato duramente Fratelli d’Italia per essersi accordato con il Pd nella stesura di alcuni punti di un disegno di legge che renderebbe più difficile implementare l’utilizzo di Starlink in Italia nel comparto della Difesa). In secondo luogo vi è una consapevolezza, almeno a Palazzo Chigi, di che cosa significhi la politica di disimpegno di Trump in Europa, rispetto al tema della difesa dalla Russia putiniana, che porterebbe problemi al nostro paese non solo a livello europeo (avere un Putin più legittimato a entrare come una lama nel burro nei paesi sovrani non è una prospettiva esattamente eccitante per chi considera la difesa di una patria un valore non negoziabile) ma anche su altri livelli. E non ci vuole molto a capire che una Russia nuovamente libera di muoversi sullo scacchiere mondiale, per dire, ci metterebbe poco a tornare a esercitare nel Nord Africa, in Libia, un potere di controllo sui flussi dei migranti, come aveva fatto prima dell’invasione dell’Ucraina.
Nel paese di Ennio Flaiano, nel paese cioè in cui anche le situazioni politiche più gravi non riescono mai a essere fino in fondo serie, essere follower del trumpismo, nella stagione di Trump, offre emozioni non troppo diverse da quelle che si potrebbero avere osservando un’allegra passeggiata di tacchini desiderosi di avvicinarsi alle cucine degli americani nel Giorno del ringraziamento. E in questo contesto, in cui i trumpiani vengono trollati da Trump, in cui i sovranisti vengono trollati dal sovranista in chief, in cui i nazionalisti scoprono che per difendere l’interesse nazionale l’unico modo è non difendere l’interesse dei nazionalisti, capiterà ancora chissà quante volte di assaporare una scena a cui ci dovremo abituare: vedere un presidente della Repubblica, argine ai sovranismi, costretto a ricordare ai sovranisti italiani che per difendere l’interesse nazionale dalle scorribande di Trump occorre essere semplicemente patriottici. “Nessuno vorrei presumere – disse Mattarella pochi mesi prima della vittoria di Trump – ipotizza di conformare i propri orientamenti a seconda di quanto decidono elettori di altri paesi e non in base a quel che risponde al rispetto del nostro interesse nazionale e dei princìpi della nostra Costituzione. Questo vale sia per l’Italia sia per l’Unione europea”. La situazione politica, in Italia, è grave ma non è seria: valeva ieri e oggi forse vale ancora di più.