Nessun’altra Mariupol. Viaggio lungo la linea rovente che in Ucraina separa occupazione e resistenza

I russi stavano per arrivare a Zaporizhzhia, ma il sacrificio di Mariupol li ha fermati. Le ciminiere come segnale di vita, in casa con il cappotto, le mappe nella mente di Putin e le parole di Trump che non si sentono al fronte. A tre anni dall’inizio della guerra

Zaporizhzhia, dalla nostra inviata. Il cielo inquinato in Ucraina è un segnale di vita: è uno dei paradossi della guerra, vuol dire che si produce, si fabbrica, si costruisce, quindi il futuro esiste e ogni giorno ha uno scopo. Il percorso che salendo dal Mar Nero porta verso l’est del paese è fatto di fumo, ciminiere, fabbriche. Si abbandona la luce del mare ghiacciato verso la riva e l’aria si fa densa. E’ un’altra dimensione, annunciata da una coltre grigia, imbiancata dall’inverno, a volte irrespirabile, spesso pericolosa e sempre indaffarata. Le città si fanno lunghe e strette, le persone meno ciarliere, l’orecchio si mette in ascolto: le sirene sono frequenti e il tempo per mettersi al riparo si accorcia, fino a diventare di qualche secondo. Da Mykolaïv, si passa per Kryvyi Rih, le mimetiche maculano di chiazze verde ghiaccio il paesaggio, l’emergenza che l’Ucraina vive da tre anni, qui si è fatta urgenza dal 2014, l’anno del primo attacco della Russia, iniziato da sud (la Crimea) e da est (le regioni di Donetsk e Luhansk). Mentre ci si dirige verso Zaporizhzhia aumenta la consapevolezza di viaggiare lungo una linea sottilissima che separa due universi. Uno esclude l’altro: da una parte l’occupazione, dall’altra la resistenza. Chi sei, cosa puoi o non puoi fare, dipende dal lato del confine in cui ti trovi.

Zaporizhzhia è tra le grandi città più vicine al fronte. Mosca occupa il 60 per cento della regione e nelle mappe ostentate dal Cremlino, anche il capoluogo è già parte della Russia. L’esercito russo non è mai riuscito a conquistare la città di Zaporizhzhia, ma poco importa: nella testa di Vladimir Putin, è possesso di Mosca e laddove i suoi i soldati non sono arrivati, il capo del Cremlino vuole imporsi con la diplomazia di guerra. La città è uno di quei posti su cui si sono accaniti dittatori di vario colore e il regime russo di oggi non fa eccezione. Zaporizhzhia è una fortezza, la sua regione ha la centrale nucleare più grande d’Europa già occupata in modo spericolato dai soldati di Mosca, mentre la città ha una centrale idroelettrica che riesce a dare energia alle decine di industrie che la circondano. Le ciminiere pompano nubi dense verso il cielo e sembrano racchiudere Zaporizhzhia in uno scrigno che finora è rimasto inaccessibile all’esercito del Cremlino. “Eravamo sicuri che i russi sarebbero arrivati – racconta Mykola Kolodiazhnyi, storico e fondatore dell’associazione Impulse.Ua, che lavora con famiglie di rifugiati, bambini traumatizzati dalla guerra, madri in difficoltà – abbiamo trascorso settimane a fabbricare molotov, ognuno aveva la sua ricetta per il cocktail perfetto. Ogni casa si era trasformata in un laboratorio. Eravamo pronti a tutto, li aspettavamo”. Mentre Mykola mima il gesto di assemblare una bomba con le sue mani, si fa fatica a immaginarlo nelle prime settimane dell’invasione: è un uomo gentile, un po’ impacciato, abbassa la voce ogni volta che pronuncia una parola volgare, ha gli occhiali spessissimi che sembrano schiacciargli il naso sotto al peso delle lenti.

Foto Epa, via Ansa

Se non fossimo a Zaporizhzhia non verrebbe mai in mente di interrogarsi su quanto possa essere coraggioso un uomo come lui, invece nella città sul fronte, con le sirene che non la smettono di suonare, dentro a un edificio con le finestre tenute insieme con lo scotch, il termometro del coraggio diventa uno strumento fondamentale e con Mykola Kolodiazhnyi segna cifre altissime: “Ho un grave difetto alla vista, molti altri problemi di salute, prima o poi dovrei sottopormi a un intervento al cuore che preferirei non fare in Ucraina. Insomma, per l’esercito sono inutile, quindi posso lasciare il paese quando e come voglio, invece resto qui perché sento che ho molte cose da fare”. La salvezza di ognuno, in Ucraina, spesso dipende dal sacrificio di altri. Se Zaporizhzhia è salva e non è sotto occupazione, lo deve a Mariupol, la città che ha resistito contro l’esercito russo per tre mesi in una battaglia che aveva come unico scopo quello di sacrificarsi per salvare il resto dell’Ucraina. I soldati di Mosca, nel 2022, erano entrati nella regione di Zaporizhzhia tagliando villaggio dopo villaggio, macinando chilometri, era scontato che sarebbero arrivati anche al capoluogo della regione, fino a quando le forze non sono state dirottate in gran parte contro Mariupol che resisteva asserragliata degli impianti delle acciaierie Azovstal. Mariupol per tutta l’Ucraina è un assillo, ricorda il metodo russo: la città aveva combattuto nel 2014, era stata liberata e Mosca è tornata a prendersela, strangolandola. E’ stata assediata, distrutta, il numero di civili uccisi non si può ancora calcolare, la foga dei bombardamenti ha ridotto la città industriale a una distesa di macerie. La lotta del reggimento Azov rinchiuso assieme ai civili nelle acciaierie davanti al porto è stata un sacrificio che non aveva come obiettivo la liberazione dalla Russia, ma una resistenza per la resistenza, per la salvezza di Zaporizhzhia e delle altre città. Mariupol è scomparsa, molti dei suoi difensori sono ancora in prigionia, e la città di macerie da tre anni continua a tormentare tanti altri posti dalla storia simile. Anche Mariupol era una città industriale, ma ora le sue acciaierie sono ferme, non lavorano: quando la Russia occupa, blocca tutto nel tempo.

“Gli ucraini hanno bisogno di riposo, tre anni sono tanti e l’unica cosa che possiamo fare è abituarci alla guerra: periodi di cessate il fuoco seguiti da nuovi attacchi”, dice Mykola. Nessuno vede davvero una soluzione duratura e le parole di Donald Trump non indignano e non scaldano. Zaporizhzhia va avanti nella sua vita, finché le industrie buttano fuori il fumo va tutto bene. Dentro casa si sta con il cappotto perché i termosifoni vanno tenuti al minimo, molte strade della città sono al buio perché anche la luce va risparmiata per quando Mosca attacca le infrastrutture energetiche, e quando si entra nell’appartamento di qualcuno, in un albergo o in qualche edificio le scuse piene di compostezza e dignità sono una prassi: “Le finestre sono rotte, non ha neppure senso ripararle, si incrinano a ogni bombardamento. Tu avrai freddo, ti porto uno scaldino?”. La signora Anna è piena di premura, viene da Mariupol e suo figlio è prigioniero. E’ sopravvissuta all’assedio e ha deciso di trasferirsi a Zaporizhzhia. L’Ucraina è grande e ce ne sono molti di posti più tranquilli di Zaporizhzhia, ma Anna vuole sentire in qualche modo la vicinanza della sua città, la Mariupol che non esiste più, e perché “per stare uniti bisogna stare vicino al fronte”. E’ ostinata, ogni settimana partecipa alle manifestazioni per chiedere la liberazione di suo figlio: “Non so neppure dove sia. So soltanto che è prigioniero da tre anni. Bisognerebbe fare di tutto per far tornare questi ragazzi”. A Zaporizhzhia, Mariuopol è un’ombra e lungo il viale principale della città, davanti al municipio, si snoda il corridoio del ricordo: le foto dei soldati di Zaporizhzhia morti in guerra. Sono tanti, talmente tanti che a un certo punto il comune ha deciso di creare un registro elettronico, consultabile su un display posizionato lungo la strada. Davanti passano delle signore, sono famigliari di qualche soldato il cui volto non è stato stampato nel corridoio del ricordo. Lo cercano sul display e lo lasciano lì, a disposizione degli occhi dei passanti. La manifestazione per i prigionieri di guerra si svolge poco distante, tutto si affaccia su viale Sobornyi, un tempo chiamato viale Lenin: la sede dell’organizzazione di Mykola, il corridoio del dolore, le proteste, il palazzo della regione con il grande tryzub, il tridente simbolo dell’Ucraina, il municipio.

Foto Epa, via Ansa

Viale Sobornyi è un lunghissimo palcoscenico che sembra non finire mai, mette in mostra la città e la mostra è dedicata alla guerra. A organizzare le proteste per i prigionieri è Stella Orel, originaria di Murmansk, Russia. “Sono venuta qui da piccolissima, il mio paese è l’Ucraina, non ha importanza da dove vengo”. Stella è una volontaria, rifornisce i soldati al fronte: dal 2022 ha accantonato tutto e si occupa soltanto del suo paese, quindi della guerra. Le sue manifestazioni hanno grande partecipazione, a Zaporizhzhia vivono diverse persone di Mariupol e la condizione dei prigionieri di guerra è quindi una questione intima. Stella conosce tutti i partecipanti, le storie di ognuno: i manifestanti si dispongono sui due lati di viale Sobornyi, fanno cenno alle macchine di rallentare e gli automobilisti suono il clacson in segno di sostegno. E’ un tributo, è gratitudine: senza Mariupol, Zaporizhzhia sarebbe dall’altro lato della linea che divide i due universi. Dalle due schiere di manifestanti, esce una signora con un piumino argentato, rincorre un bambino che al collo ha un cartello con la scritta: “Sogno di non dimenticare la voce di papà. Liberate mio padre”. Il bambino si chiama Miron, si getta sulla neve, forse la voce di suo padre non la ricorda da tempo. A corrergli dietro è sua madre Olha: “Mio marito è stato fatto prigioniero durante l’operazione Kursk”. Lo scorso anno, in agosto, gli ucraini hanno iniziato un’incursione inaspettata nella regione russa di Kursk. Sono entrati in profondità dentro l’oblast rivelando quanto poco difeso fosse il territorio russo. “Noi veniamo dai territori occupati della regione di Zaporizhzhia. Siamo riusciti a fuggire quando ero ancora incinta. So come si vive di là e se devo scegliere il futuro per Miron, non ho dubbi, lo voglio qui”. Miron continua a rotolarsi, è scalmanato, corre, si perde generando il panico di tutto il gruppo. Non sa bene cosa cambia da un lato all’altro del confine, è un bambino nato con la guerra con un nome dedicato alla pace. Ancora non va a scuola, ma se i suoi genitori non avessero scelto di lasciare i territori occupati, gli sarebbe stato insegnato a odiare il suo paese, sarebbe cresciuto in un ambiente povero, distrutto, senza scelta. La linea è sottilissima, dista cinquanta chilometri e cambia tutto. “Mio marito non è un soldato di professione, è stato chiamato ed è andato in guerra”, racconta Olha. Il legame che unisce tutte le persone che manifestano non è soltanto l’avere un parente in prigionia, ma è più profondo: l’operazione Kursk ha avuto come effetto immediato la cattura di molti prigionieri di guerra russi, soldati mal preparati che si sono consegnati in fretta agli ucraini che avanzano. Avere tanti russi in prigionia ha permesso di liberare diversi soldati che avevano combattuto a Mariupol: in Ucraina la storia del sacrificio si intreccia, si stringe.

“Bazhaju mirnogo nebo”, sussurra il soldato con una voce che a malapena supera lo sferragliare del treno che fugge davanti alle ciminiere e si allontana dalla linea rovente che separa i due mondi. “E’ un modo di dire. Prima della guerra lo usavamo per augurare una buona giornata. Chi ci aveva mai pensato al senso letterale: ti auguro un cielo sereno”

Mariupol ha salvato Zaporizhzhia, Kursk ha permesso di riportare a casa i soldati del reggimento Azov, a Kursk è stato mandato a combattere il marito di Olha e padre di Miron, che adesso a sua volta è prigioniero. In Ucraina si paga tutto, per questo le parole di Trump, le accuse a Zelensky di aver iniziato la guerra, la trasfigurazione dell’alleato americano sembrano preoccupare poco gli abitanti di Zaporizhzhia, una città fondamentale per l’Ucraina e per le mire di Putin.

“Qui abbiamo fabbriche importanti”, racconta Mykola aprendo una mappa dell’Ucraina sul suo cellulare. La mappa è piena di cuori per indicare i posti per lui significativi, molti sono nei territori occupati. Uno è a Berdjansk, la città portuale sul mare d’Azov adesso in mani russe: “Sì, sono posti a cui sono legato, in cui sono andato in vacanza, in cui forse non tornerò mai più. E pensare che qualche mese prima della guerra avevo fatto proprio a Berdjansk la proposta di matrimonio a mia moglie. Era gennaio, ma era una giornata bellissima. Poi ci siamo spostati a Leopoli, nonostante la guerra. Lei vive a Bratislava”. I piani, prima dell’invasione erano molto chiari per la coppia: Mykola avrebbe raggiunto sua moglie in Slovacchia e si sarebbe trasferito. “Poi ho deciso di restare, mia moglie ha capito: io non posso abbandonare Zaporizhzhia”. Mykola è qui per scelta, con i sui problemi di salute potrebbe andarsene in qualsiasi momento: “Me ne andrò quando la guerra sarà finita o se dovesse arrivare l’occupazione. No, io sotto i russi non voglio vivere”. Anche lui ha paura di quella linea rovente che divide i due universi.

Il fatto che Mosca non abbia accantonato il progetto di prendere Zaporizhzhia lo dimostra anche il tipo di bombardamenti che ha condotto sin dall’inizio. Prima ha colpito le difese della città, che non erano molte, poi si è messa a colpire le centrali elettriche con l’obiettivo non soltanto di lasciare al freddo i civili, ma di bloccare le fabbriche e quindi l’economia. Per questo il movimento di fumo nel cielo, la scia grigia, densa e diabolica in realtà mettono di buonumore: “Siamo molto rapidi a rimettere in funzione quello che la Russia distrugge. Purtroppo la città non è ben difesa, ma tutto in poco tempo torna a funzionare”. Il segnale che Zaporizhzhia fosse lasciata a sé stessa è stato il bombardamento contro la diga Dnipro Ges, attaccata nel marzo del 2024. La diga è storica, Hitler per difenderla dalla controffensiva sovietica ordinò ai suoi soldati di resistere a ogni costo. Oggi è la fonte di energia delle fabbriche, è il motore della forza produttiva della città che vive con il cappotto in casa: “Ogni volta è come una lotteria. Sentiamo la sirena, potrebbero essere droni oppure un missile o una bomba planante. Dopo tre anni non puoi fuggire sempre nel rifugio cinque o sei volte al giorno. Proviamo a sopravvivere e infatti Zaporizhzhia è viva”. E’ vero, è viva. La strada principale è affollata. La sirena suona e tutti la sfidano. Oggi non ci sono danni, i botti sono lontani. Tutto è votato alla guerra. I volti dei soldati morti sono ovunque: sugli autobus, nei bar. I negozi che vendono oggetti e indumenti per soldati sono frequenti quanto le pubblicità che invitano ad arruolarsi ma ormai non convincono più. “No, ormai nessuno si arruola. Prima avevamo un obiettivo chiaro e ci illudevano che la guerra sarebbe durata poco. Adesso non sappiamo più quanto andrà avanti, dove dobbiamo arrivare. Io non credo che sia stato giusto dire alle persone: presto andremo a prendere il caffè in Crimea. Non lo prenderemo il caffè in Crimea. Queste promesse hanno creato degli effetti demotivanti: i soldati sul campo si rendono conto che in Crimea non ci arriveranno e i rifugiati si sono appigliati alla promessa di una liberazione di tutto il territorio ucraino che è irreale”. Il risultato, spiega Mykola Kolodiazhnyi parlando dei rifugiati, è stato che chi scappava dai territori occupati non si rifaceva una vita e si è messo in attesa senza volersi integrare. “Vanno delineati degli obiettivi veri di vittoria e il punto è che molti li abbiamo già raggiunti, perché non dirlo anziché promettere caffè in Crimea?”. Mykola sottolinea spesso di essere uno storico ed elenca con accuratezza i risultati ottenuti: “Dovevamo essere distrutti in quanto ucraini, siamo qui e siamo ancora ucraini. Dovevamo ritrovarci comandati dai russi, invece siamo indipendenti e prendiamo le scelte da soli. La liberazione dei territori occupati da un nemico così grande non avviene in poco tempo. Ci vogliono anni e non puoi tenere una nazione in stato di guerra attiva così a lungo, con sempre meno soldati al fronte, stremati. Arriverà il momento di riavere tutto il nostro territorio, potrebbero volerci decenni. E’ sbagliato prometterlo in fretta”. A Zaporizhzia le parole di Trump non arrivano. I cittadini sono abituati a notti insonni, a una paura che striscia lenta sotto pelle e diventa abitudine, sono un popolo guerriero che sa che, se Putin vuole la città, tornerà a prendersela, proprio come ha fatto con Mariupol. Vuole consolidare il controllo del mare d’Azov e la fortezza Zaporizhzia è fondamentale. Tornerà e a quel punto non ci sarà un’altra Mariupol a fare da schermo, ci sarà solo Zaporizhzhia davanti all’esercito russo. Un cessate il fuoco sarà un’attesa, ma un’attesa in cui prepararsi. “E per essere pronti non possiamo fare a meno dei nostri alleati”, conclude Mykola.

Oggi l’Ucraina è un paese diverso rispetto al 2014 e ancora di più rispetto al 2022: “Putin è il grande derussificatore dell’Ucraina, ci sta rendendo un popolo sempre più omogeneo”, dice lo storico Yaroslav Hrytsak. “La guerra ha cambiato il territorio, la lingua. Ha accelerato un processo che in realtà era già iniziato molti anni fa: con la Rivoluzione Arancione nel 2004 e con Euromajdan nel 2013. Poi sta avvenendo un altro fenomeno molto interessante, che ha subìto un’accelerazione imprevista: l’Ucraina si sta deoligarchizzando. Il peso e l’influsso degli oligarchi è ridotto e anche questo era iniziato prima, con una spinta forte da parte di Zelensky che ha diminuito l’influsso dei clan sulla politica. Poi è stata la guerra a rivoluzionare tutto”. Hrytsak riflette su una questione che non per tutti rappresenta un risvolto positivo: “L’Ucraina era un progetto nazione con molte anime e molte lingue. Ora quel progetto non esiste più e se non ci fosse stata l’ingerenza del Cremlino quel progetto sarebbe rimasto in piedi”. Per qualcuno è un bene, per altri la multiformità dell’Ucraina era una caratteristica irrinunciabile. Molti, come a Zaporizhzhia, non hanno il tempo di interrogarsi sulla differenza tra l’Ucraina geografica, l’Ucraina mentale e quella linguistica: sanno che è nella loro città che si difende il paese. E non si distraggono. Sanno che rimanere, non abbandonare Zaporizhzhia è la prima forma di resistenza. “Abbiamo capito che vivremo sempre come un paese in guerra, questo è il cambiamento più grande che dobbiamo affrontare: diventare come Israele. Siamo quasi circondati da un nemico che non smetterà mai di odiarci, però possiamo continuare a esistere”.

La stazione di Zaporizhzhia 1 è impacchettata come il resto della città, lo scorso anno è stata attaccata da un missile russo, che oltre a danneggiare l’edificio, colpì un treno ancora vuoto. Le vetrate sono piene di scotch, sulla porta principale sono state affisse due pubblicità: una invita ad arruolarsi, l’altra a scegliere un giubbotto antiproiettile con piastre di ceramica balistica. Zaporizhzhia 1 è il capolinea: oltre, i treni non vanno. Un tempo, proseguivano verso Sebastopoli, in Crimea. Oggi Zaporizhzhia 1 è l’ultima stazione prima della linea rovente, piena di donne con borsoni enormi e soldati con zaini striminziti. Il treno per Kyiv è al completo, lunghissimo, si snoda sulla rotaia come un enorme passaggio verso il rifugio, verso una zona più sicura, lontana dalla città sul fronte.

O. è un soldato, viene accompagnato sul treno da due commilitoni: gli portano lo zaino e si offrono di sistemargli il letto. Non vuole, lo sistemerà lui: “Dopo tutto ho perso una gamba, non un braccio”. Il saluto con i compagni è breve, festoso. I due scendono dal treno e continuano a salutarlo dalla finestra: si sbracciano, ridono. Poi si dissolvono. O. inizia a preparare il suo letto con movimenti perfetti, saltellando sulla gamba e rifiutando l’assistenza della capotreno che gli offre aiuto, acqua, tè, un cuscino aggiuntivo. Non vuole niente, sistema le lenzuola, si toglie la scarpa, tira fuori dallo zaino una ciabatta. Si siede: “E’ successo a novembre, dovevamo fare da supporto a un’altra unità. I russi ci hanno mandato addosso i droni. E’ il loro metodo: prima i droni e poi l’artiglieria. Ci vengano addosso cercando di non darci modo neppure di alzare la testa. Avevo molte schegge sulla gamba, ho dovuto aspettare nove ore prima di essere portato in una zona sicura, non riuscivamo a muoverci e quando infine il mio autista ha raggiunto l’infermeria avevamo le ruote a terra, il mezzo completamente distrutto. Ho visto ferite peggiori”. O. si è offerto volontario nel 2022, quando è iniziata l’invasione: “Sono andato ad arruolarmi, dopo un anno di addestramento sono andato al fronte. Ma non credere che sia sempre azione”. Sottolinea quanto il lavoro del soldato possa essere abitudinario, a volte fa più paura la noia dell’azione: “Prima sono stato nel Donetsk, dove di fatto preparavamo le trincee e aspettavamo. Io già ero al comando di un plotone, poi i plotoni sono diventati tre”. Gli piace dire che il lavoro del soldato è un lavoro come un altro, poco importa il rischio, lo fai, ti pagano, è importante che ti piaccia: “Nulla di speciale”, ripete. Dopo Donetsk è andato verso nord. Infine Zaporizhzhia, dove il fronte sembra immobile, ma non lo è. “Ho visto tanti miei compagni che non ne potevano più, quando ci siamo arruolati pensavamo che la guerra sarebbe durata meno. Capisco quelli che vogliono mollare, per chi ha una moglie o dei figli è più difficile. Non giudico neppure chi non vuole più arruolarsi. Questo è il mio lavoro, e lo faccio. Dopo l’incidente avevo bisogno di rivedere i miei amici, così sono tornato a Zaporizhzhia, anche se sono in vacanza medica”. Spiega che la vacanza medica è il periodo in cui deve riprendersi dall’incidente avvenuto a novembre e dovrà imparare a camminare con una protesi. Si stende. Ripensa agli amici, a quelli che lo capiscono al volo, a quelli che si sono offerti volontari come lui: “Noi soldati non leggiamo molto le notizie, ci tolgono la concentrazione. Sul fronte la realtà è un’altra cosa, obbedisce e reagisce a quello che succede nell’immediato. Le promesse, le trattative sono qualcosa di molto lontano dal nostro lavoro. Dal fronte non si fanno previsioni, ma constatazioni. Mi rendo conto che siamo pochi, il ministero della Difesa deve trovare un modo per darci il cambio, c’è qualcosa che non funziona e le decisioni non vengono prese in fretta”. Ha le mani attorno al ginocchio, lo sguardo chiarissimo perso nel tempo: “Due anni fa ho fatto la mia prima vacanza fuori dall’Ucraina, ho avuto un permesso di due settimane. Lo scorso anno avrei voluto farlo di nuovo, magari in un paese freddo, a nord, l’estate è stata calda. Sarei dovuto partire a settembre, ma non c’era nessuno che mi sostituisse. Ho rimandato a ottobre, ma la situazione non era cambiata. Novembre non era periodo di vacanza”. A novembre è stato ferito e ora elenca i posti in cui vorrebbe andare, esclude Venezia: troppi turisti. “Dopo la vacanza medica – pronuncia l’ossimoro militare senza farlo suonare come una stonatura – andrò in un’altra unità. Ancora non so dove, però voglio rifare un viaggio fuori dall’Ucraina, ovviamente poi rientro”, sorride. Vorrebbe avere dei posti nel mondo in cui tornare, posti fuori che sente come casa.

Immagini mai di rivedere gli aerei passeggeri che volano nel cielo ucraino? Si rialza: “A Leopoli si sente ogni tanto il suono dell’aereo che porta la posta, è strano quando un aereo non fa il suono di un mezzo militare”. “Bazhaju mirnogo nebo”, sussurra con una voce che a malapena supera lo sferragliare del treno che fugge davanti alle ciminiere e si allontana dalla linea rovente che separa i due mondi. “E’ un modo di dire. Prima della guerra lo usavamo per augurare una buona giornata. Chi ci aveva mai pensato al senso letterale: ti auguro un cielo sereno”.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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