Il viaggio di Debora da Kharkiv a Pisky, con un pupazzo al petto da regalare a Taras. Nel marciume ritrova Olena, è irriconoscibile, non sente più il dolore: “Come abbiamo fatto a ridurci così?”. Un romanzo ucraino
Anticipiamo in queste pagine un estratto del romanzo “Non c’è posto per l’amore, qui” (collana Oceani, La Nave di Teseo), in libreria da domani, 25 febbraio.
Cappelli a punta con la stella rossa in testa, i soldati pattugliavano la stazione di Kharkiv, le baionette sui loro fucili scintillavano al sole. Parvero divertiti quando Debora entrò con una valigia in una mano e un cane rosa di pezza con le orecchie cascanti nell’altra. Era un regalo per Taras, aveva passato un pomeriggio intero ai grandi magazzini a scegliere il giocattolo più vistoso. Nella tasca del cappotto aveva i documenti che aveva appena ricevuto per trasferirsi a Kyiv. Il villaggio di Olena era più o meno di strada, e Debora aveva acquistato i biglietti del treno in modo da poter trascorrere una notte a Pisky. Era da un po’ che non riceveva lettere dalla sua amica, ed era preoccupata.
Si sistemò su una panchina accanto a un tavolo dietro cui era seduto un ferroviere. Un treno passò veloce, senza fermarsi. Era composto da vagoni per il trasporto del bestiame. All’interno Debora scorse delle persone, troppe perché potessero stare comode. Un uomo urinava da un lato, senza alcuna vergogna. Un altro, alle sue spalle, rideva in modo folle.
“Chi è quella gente?” chiese.
“Kurkuli. Sabotatori. Accaparratori”, rispose il ferroviere senza alzare lo sguardo. “Vanno a est. Ne passano tutti i giorni di questi treni, e ci sballano tutti gli orari. Il suo treno ha mezz’ora di ritardo. Le porgo le mie scuse, compagna”.
“Non c’è problema, non ho fretta”. Una volta a bordo, Debora si sistemò accanto al finestrino per guardare la campagna. Era strano. In passato, le contadine si avvicinavano ai binari a ogni stazioncina per vendere sottaceti, lardo, uova sode e focacce al formaggio. Ma stavolta al treno non si avvicinava nessuno. I binari erano pieni di truppe, ma quasi nessuno saliva o scendeva. I pochi abitanti dei villaggi che vide avevano gli occhi spenti e infossati. E c’era un fetore strano che non riusciva bene a interpretare.
Arrivò a Pisky nel tardo pomeriggio. Anche se non aveva ricevuto risposta al suo telegramma, un po’ si aspettava di trovare Olena ad accoglierla.
Il binario era deserto, a parte una dozzina di soldati indifferenti. Il loro lavoro consisteva nell’impedire alla gente di partire, non di arrivare. Debora lasciò la valigia alla stazione, e stringendo al petto il pupazzo uscì sulla strada coperta di neve. Si guardò in giro in cerca dei carretti trainati dai cavalli, sperando che qualcuno potesse darle un passaggio fino a casa di Olena. Sperava di ricordare ancora la strada.
Ma non c’erano né persone, né carretti. Le strade erano deserte. Solo quella che una volta era la chiesa sembrava abitata, dal camino usciva un sottile pennacchio di fumo. Doveva far caldo lì dentro, pensò Debora avvicinandosi e cercando di non scivolare sul ghiaccio. Quando spinse la porta per entrare, il puzzo di diarrea e marciume la colpì dritta in faccia. Un uomo basso e calvo era seduto accanto all’ingresso dietro una scrivania di legno tutta graffiata.
“Buongiorno, sono appena arrivata in treno da Kharkiv”, disse Debora per presentarsi.
“E’ della commissione di indagine?”, chiese l’uomo, fissando stupefatto il cane rosa.
“Dell’università”, replicò lei con sicurezza.
“Ah”. L’uomo fece schioccare la lingua. Le donne di città non venivano spesso a Pisky. Gli era stato comunicato che in settimana sarebbero arrivati degli ospiti importanti da Kharkiv.
Non sapeva se lei fosse una di loro, ma decise di esserle d’aiuto, meglio stare sul sicuro.
“Che cosa posso fare per lei, compagna?”
“Sono venuta per la famiglia Tkach”. Un suono penetrante dalle profondità dell’edificio sovrastò la loro conversazione. Poi si sentirono dei colpi e un lamento.
“Che cos’è?” chiese Debora, sgranando gli occhi. “Il motivo per cui è venuta. Tkach”.
“Non capisco”.
“Ha detto Tkach, no?”
“Sì…”
“Venga con me”.
L’uomo si alzò in piedi. Debora lo seguì dietro l’altare, in quello che in passato doveva essere l’alloggio del prete. Su uno sgabello era seduto un soldato annoiato. Alle sue spalle, notò quattro donne incatenate a un banco. La più giovane aveva i capelli nascosti da un fazzoletto. Sembrava gonfia, con le guance tonde e un labbro spaccato. Aveva gli occhi chiusi.
Debora ebbe un sussulto.
“Questa è Tkach”, disse l’uomo indicandola.
Olena percepì la presenza di Debora e socchiuse gli occhi. Erano velati, gli occhi di una persona diversa. Aprì lentamente la bocca in un sorriso, i denti leggermente scheggiati erano gli stessi, ma ora erano estranei e spaventosi. Squadrò Debora, esaminò il cane di pezza, poi esplose in una risata rauca e sonora.
“Tu, tu!” strillò. “Sei venuta, alla fine. Ce l’hai fatta. Con un regalo, un vero regalo dalla grande città! L’hai preso ai grandi magazzini?”. Cercò di alzarsi in piedi e di avvicinarsi, di abbracciarla, ma il soldato scattò in piedi e la colpì allo stomaco con il calcio del fucile. “Sta’ indietro, brutta vacca assassina”. Sputò per terra.
Olena inciampò, cadde, e si rannicchiò in preda al dolore, piagnucolando. Le altre donne risero soddisfatte. “E chi è questo bell’uccellino?” esclamò una di loro, prendendo in giro Debora. Un’altra tirò la catena a cui era legata Olena.
“Perché l’hai picchiata?” fu l’unica cosa che Debora riuscì a dire alla guardia. Ma parlò così piano che fu come se non avesse detto nulla.
“E lei chi è?” chiese il soldato all’attendente calvo, lanciando un’occhiata feroce a Debora. “Non dovrebbe stare qui. Portala via, subito”.
“Ha detto che è della commissione mandata da Kharkiv”, replicò l’attendente.
“Io sono di Kharkiv”, insistette Debora.
Approfittando di quel momento di distrazione, Olena si tirò su con energia inaspettata e sputò in faccia al soldato. Lui la colpì di nuovo, più forte, e lei cadde ancora una volta. “Continua pure a colpirmi, non mi importa”, borbottò lei. “Non sono più una persona. Sono indistruttibile. Non sento più il dolore. Nessuno può farmi del male”.
L’attendente prese Debora per un gomito. “E’ meglio se ce ne andiamo, compagna”, sussurrò. “E’ meglio evitare problemi”.
Debora lo seguì ubbidiente all’ingresso.
“Ma cosa significa?” chiese. Stringeva ancora in mano il pupazzo, l’unica macchia di colore nella chiesa buia. “Cosa sta succedendo?”
“Intende Tkach? Non lo sa? Ha fatto una zuppa. Una zuppa con suo figlio”, rispose l’uomo.
Debora non capiva. “Che zuppa?”
“Una zuppa. Prima ha fatto a pezzi sua madre per nutrire se stessa e suo figlio. Ma di carne da mangiare ce n’era poca. Solo gli organi erano ancora succosi: il cuore, il fegato… Poi, quando ha finito sua madre, ha strangolato suo figlio e ha fatto la zuppa con lui. Si chiamava Taras. Un bel bimbo”.
Debora dovette appoggiarsi alla parete.
“E’ il quarto caso nelle ultime settimane. Nessuno lascia più uscire i figli. Io no di certo”, proseguì l’uomo. A differenza degli altri abitanti del villaggio, grazie al suo lavoro poteva contare sulle razioni ufficiali. Erano scarse, ma con l’aggiunta di qualche lumaca e dei pesci dello stagno sarebbe riuscito a superare l’inverno. “La cosa divertente è che adesso che le hanno arrestate e aspettano il treno per andare in prigione hanno da mangiare. Ricevono più pane degli altri. Dov’è la giustizia?”.
“Quando è successo?”
“Più o meno una settimana fa”, rispose l’uomo. “Le trattengono qui finché non arriva la commissione”. Poi fece una pausa. “Tu non sei della commissione, vero?”
“No, in realtà no”, ammise Debora.
“Allora è meglio se te ne vai. Prendi il primo treno e vattene”, disse, all’improvviso allarmato. “Sì, meglio non fermarsi qui troppo a lungo. Sono solo problemi per tutti e due”. Strinse gli occhi per la paura al pensiero che gli togliessero le razioni.
Debora annuì. Un altro stridulo verso animale tagliò l’aria.
Debora tornò arrancando verso la stazione, il cielo era limpido e il villaggio era immerso nella calda luce del sole, che colorava la neve di rosa e di arancione. Sembrava tutto così placido e gradevole. Tornò con la mente all’ultima volta con Olena, a quel bacio, al sapore delle sue labbra. Ricordò di averla aiutata a fare il bagnetto a Taras, la sua pelle morbida, i suoi capelli di bambino. Ricordò Zinaida e i suoi deliziosi manicaretti. La realtà era talmente assurda, talmente strampalata, che si rifiutava di accettarla. Quell’essere in catene, metà animale e metà persona, non poteva essere Olena, la sua Olena. Oppure sì?
Il pupazzo nelle sue mani era così ridicolo, così inutile. Perché non era venuta prima, molto prima, con del cibo, con i pacchetti che le mandava suo padre? I segnali erano ovunque, lei sapeva da settimane della carestia, aveva visto i cadaveri congelati per le strade di Kharkiv. Come aveva fatto a non capire, a non correre a salvare Olena, sua madre, Taras? Era troppo presa dalla sua routine egoista, perché non aveva fatto più attenzione? Perché non si era allarmata quando Olena non aveva risposto alle sue lettere? Perché?
Un uomo con un giubbotto di pelle, la pistola alla cintura, interruppe i suoi pensieri. Impediva l’ingresso in stazione. “Lei non è di qui, vero?” Era più un’affermazione che una domanda. Quel pupazzo tra le sue mani era rivelatore.
“No, temo di essere scesa per errore alla stazione sbagliata”, rispose Debora. “Devo andare a Kyiv”. Gli mostrò la sua lettera di trasferimento all’università di Kyiv e il permesso per il cambio di residenza.
Lui esaminò attentamente i documenti. Gente di città. Documenti in ordine. E comunque era troppo impegnato per preoccuparsene.
“Sì, ha sbagliato di grosso. Il prossimo treno nella sua direzione è fra due ore. Può aspettare alla caffetteria, anche se credo che a parte l’acqua calda non abbiano altro”, disse educatamente. “Le consiglio di non lasciare la stazione. Non si può mai sapere cosa può succedere qui di sera. Lo dico per la sua sicurezza”.
Debora seguì il suo consiglio. Mandò un telegramma ai suoi genitori, e due ore dopo era sdraiata nella cuccetta superiore sul treno diretto a Kyiv.
Il treno si avvicinò al fiume Dnipro, scintillante alla luce del primo mattino. Il sole era già alto. Debora guardò fuori dal finestrino appannato e restò quasi accecata dalla distesa brillante di ghiaccio e neve contro il cielo azzurro. Dall’altra parte del fiume, proprio di fronte a lei, le cupole dorate del monastero delle Grotte di Kyiv troneggiavano su una collinetta boscosa al cui interno si allargava un labirinto di grotte con le mummie dei santi ortodossi.
Una volta che il treno ebbe attraversato il Dnipro e si fermò con un violento fischio, Debora cercò di sbarazzarsi del cane rosa. Ma la controllora le corse dietro, e agitandolo esclamò: “Signorina, ha dimenticato questo”.
“Non è mio”, replicò Debora in modo scortese.
“Certo che è suo,” insistette la donna sospettosa, stringendo il pupazzo per capire se all’interno non fosse stato nascosto qualcosa di illecito.
“Lo prenda lei. Non lo voglio”, disse Debora.
La controllora si allontanò scuotendo la testa. Chi mai avrebbe buttato via un giocattolo così bello e perfetto?
Gersh e Rebecca, che stavano aspettando Debora sul binario, restarono interdetti di fronte a quella scena ma non dissero nulla. Si abbracciarono e Gersh prese la valigia della figlia. Debora cercò di comportarsi in modo normale, rispondendo alle domande su questioni talmente futili e irrilevanti che a malapena riusciva a concentrarsi sulle sue stesse risposte. Ma dopo essere entrata nell’appartamento dei suoi genitori, e aver visto il banchetto che l’aspettava, cedette.
“Non riesco a mangiare, scusate”, disse. Le girava la testa. Andò in camera da letto, e si infilò sotto le coperte ancora completamente vestita.
“Scusate, ma non mi sento bene”.
Rebecca la seguì nella stanza. “Cosa c’è che non va, tesoro? Cosa succede? Non ti riconosco”.
Debora, che fino a quel momento era riuscita a non piangere, crollò tra le braccia di sua madre.
“Che cosa ci sta succedendo? Cosa sta succedendo? Che cosa siamo diventati?” disse tra i singhiozzi. “Lo sai che c’è gente là fuori, brava gente, che sta diventando cannibale? Mangiano le persone. E nessuno dice nulla, nessuno ne parla. Com’è possibile?”
Rebecca aveva sentito voci di cose orribili che accadevano nei villaggi, ma aveva scelto di ignorarle. Non c’era nulla da guadagnare dal sapere troppo. Ascoltò in silenzio Debora che le raccontava di Olena, del figlio morto, del puzzo di morte che ancora le bruciava il naso.
“Sono tempi difficili”, disse accarezzando i capelli di sua figlia. “Tempi difficili. E nei tempi difficili bisogna sopravvivere ed essere forti. Grazie a Dio adesso sei qui con noi, e per fortuna tuo padre ci ha fatto trasferire a Kyiv. Se Dio lo vorrà, insieme supereremo tutto questo”.
“Avrei dovuto capirlo. Sarei dovuta andare da Olena con del cibo, non con quell’inutile giocattolo. Se fossi andata prima, li avrei potuti salvare”, piangeva Debora. “Avrei potuto”.
“No, nessuno avrebbe potuto salvarli. Nessuno. Siamo noi di fronte alla storia, e la storia è una bestia selvatica assetata di sangue. Si è scatenata di nuovo contro questo paese, per spezzarlo e rifarlo nuovo. Non puoi ostacolarla e non puoi fermarla. L’unica speranza è che ti ignori mentre attacca e sfodera i suoi artigli. Che non si accorga di te. Che colpisca qualcun altro. L’unica cosa che si può fare è provare a rendersi invisibili e sopravvivere”.
“Ma è terribile,” disse Debora. “Come abbiamo fatto a ridurci in questo modo?”
“Non lo so”, rispose Rebecca. “Ma tra gli animali è sempre stato così. Forse abbiamo sbagliato noi umani a pensare di essere diversi”.
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