Trump non avrà grandi passioni letterarie, ma chi lo circonda sì. Da J. D. Vance a Peter Thiel, una reading list
E’ difficile capire cosa abbia colpito l’immaginazione di Donald Trump nel leggere le pagine di “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, con la sua tragica descrizione della vita nelle trincee della Prima guerra mondiale. Il libro del tedesco Eric Maria Remarque fu un successo enorme negli anni del primo dopoguerra, per diventare poi una lettura proibita dai regimi nazista e fascista. Intere generazioni lo hanno letto nei decenni successivi, dopo che un’altra guerra mondiale aveva devastato il mondo. Ma sorprende trovarlo sul comodino del quarantacinquesimo e quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti.
Eppure quello di Remarque è praticamente l’unico romanzo di cui ci sia traccia nelle letture di Trump. Durante la sua prima campagna elettorale per la Casa Bianca, The Donald raccontò a un giornalista di The Hollywood Reporter che lo stava rileggendo perché lo considerava “uno dei più grandi libri di tutti i tempi”. E’ una delle rarissime recensioni letterarie che il presidente si è concesso in questi anni riguardo a un libro che non parli di lui o che non parli male di qualcuno dei suoi avversari. Ma in generale i libri non sono mai stati un argomento di discussione privilegiato per Trump e non trovano molto spazio nei suoi post su Truth o nelle sue interviste. “Amo i libri, ma non ho tempo di leggere”, è la risposta con cui chiude l’argomento quando qualcuno gli fa una domanda sulle sue preferenze di lettura.
L’analisi della reading list dei leader di solito è molto utile per provare a intuire il loro approccio alle sfide, ma anche i gusti e le passioni che li caratterizzano. Cercare però di capire come vede il mondo l’attuale Casa Bianca attraverso le preferenze letterarie dei suoi protagonisti, non è impresa semplice. Perché quanto meno l’inquilino dello Studio Ovale non sembra dedicare molto tempo a sfogliare pagine rilegate e ha sempre ammesso di aver poca pazienza anche per le pagine sciolte racchiuse nei dossier che gli sottopongono i suoi collaboratori. Preferisce una sintesi, possibilmente a voce e senza troppi giri di parole.
In questo come in molte altre cose è un mondo lontano anni luce, per esempio, dalla Casa Bianca di Barack Obama, un presidente bibliofilo che ancora oggi condivide sui social liste intere dei libri che sta leggendo e classifiche di quelli che ha apprezzato di più. Oltre a sfogliarli, Obama i libri ama anche scriverli e usarli per l’attività politica: a 34 anni aveva già scritto un’autobiografia, “Dreams from my Father” e trent’anni dopo passa ancora molto tempo a completare la scrittura della seconda parte della sua monumentale biografia presidenziale. Con Trump sicuramente Obama condivide la passione di parlare di sé stesso, ma a differenza dell’attuale presidente non ama utilizzare ghostwriter e scrive molto in prima persona.
Il suo predecessore alla Casa Bianca, George W. Bush, non veniva ritenuto un innamorato dei libri, ma in realtà trascorreva molto tempo immerso nella lettura. Quando i giornalisti chiedevano, di tanto in tanto, che libri stesse leggendo Bush in quel determinato periodo, dall’ufficio stampa della Casa Bianca arrivavano liste di titoli importanti, biografie di George Washington e Alexander Hamilton e immancabilmente la Bibbia. In realtà il presidente del primo decennio del secolo era un appassionato di Tom Wolfe, l’autore del “Falò delle vanità”, e ci fu un momento in cui divenne un caso la sua riluttanza a svelare che stava leggendo “Io sono Charlotte Simmons”, il romanzo a base di sesso e birra che lo scrittore nel 2004 dedicò al mondo universitario americano. Un argomento che i collaboratori di Bush ritenevano sensibile, visto che era noto il turbolento passato del presidente come studente amante delle feste a base di alcol. In casa Bush, comunque, la passione per la lettura era diffusa al punto che la figlia Jenna è oggi una celebrità televisiva specializzata in libri: il suo Book Club sulla Nbc è uno dei più ambiti dalle case editrici, insieme al suo profilo Instagram “Read with Jenna”, dove i 300 mila follower possono decretare in un attimo il trionfo di un libro.
L’attuale presidente ha parlato delle sue letture quasi esclusivamente nei memoir e nei libri che si è fatto scrivere negli anni Ottanta e Novanta, dedicati alle regole per raggiungere il successo. Il più celebre è “The Art of the Deal” del 1987, firmato da Trump e scritto dal giornalista Tony Schwartz, che contribuì in modo significativo a rendere familiare a un gran numero di americani il nome dell’imprenditore immobiliare anche fuori da New York, dove si era principalmente mosso fino a quel momento. E’ in questi libri che il futuro presidente degli Stati Uniti ha citato qua e là alcuni classici che apprezza, tra i quali il “Principe” di Niccolò Machiavelli e l’“Arte della guerra” di Sun Tzu. Nella biblioteca ideale di Trump trovano posto anche testi di Albert Einstein e Carl Gustav Jung, i saggi sull’America di Ralph Waldo Emerson, analisi storiche come “Team of Rivals”, il celebre ritratto che Doris Kearns Goodwin dedicò alla Casa Bianca di Abraham Lincoln e biografie di presidenti, in particolare George Washington e Richard Nixon.
Tra i grandi leader, però, l’attuale inquilino dello Studio Ovale ha una passione particolare per uno che non è americano: Winston Churchill, che Trump cita spesso e di cui dice di aver apprezzato il racconto che ne fa William Manchester nella biografia “L’ultimo leone”. Il primo ministro britannico dei tempi della Seconda guerra mondiale sembra essere la vera ispirazione che Trump ha scelto come modello di leadership, quantomeno dal punto di vista dell’immagine. Il pollice alzato che il presidente mostra in ogni foto sarebbe la versione trumpiana delle due dita a “V di vittoria” di Churchill. E lo sguardo truce che Trump ha fatto diventare un’icona, dalla sua foto segnaletica al ritratto presidenziale con cui ha iniziato il secondo mandato, secondo quanto avrebbe confidato ad alcuni collaboratori sarebbe un tentativo di darsi un look “alla Churchill”.
Nello Studio Ovale c’è una piccola libreria con alcuni volumi, tra la porta d’ingresso e la scrivania presidenziale, ma non sono sicuramente letture di Trump. Sono in buona parte gli stessi libri che teneva in ufficio anche Joe Biden e probabilmente sono presenti da decenni. Sono dieci volumi di opere dello scrittore americano Nathaniel Hawthorne, tra cui “La lettera scarlatta”, rilegati in antiche copertine di colore scarlatto, e una collezione di libri della Yale University Press dedicati alle istituzioni degli Stati Uniti.
Trump ha invece portato nello Studio Ovale qualcosa di inedito da un punto di vista culturale e spirituale. Il presidente sostiene da mesi che il fallito attentato del luglio scorso ai suoi danni è stato sventato grazie a un intervento provvidenziale e si descrive come un miracolato. E’ un evento che a suo dire gli ha cambiato la vita e la prospettiva sulle cose e ha riacceso il suo interesse per un libro che tutti i presidenti americani amano citare e tenere in evidenza: la Bibbia. Nelle foto ufficiali di queste prime settimane di presidenza non si sono viste copie del libro sacro, ma hanno fatto il giro del mondo le foto di momenti di preghiera nello Studio Ovale, con Trump alla scrivania circondato da predicatori di varie denominazioni. E qui emergono altri interessi di lettura del presidente, perché cita e loda sui social e nei discorsi pubblici i libri di alcuni di quei predicatori. Prima tra tutti Paula White, che da un decennio è un’ascoltata consigliere spirituale di Trump e che lo ha iniziato alla “teologia della prosperità”. Una rilettura del Vangelo che ha le radici nel pensiero del pastore Esek William Kenyon, che nella prima metà del secolo scorso teorizzava come la fede sia portatrice di ricchezza, salute e benessere, mentre povertà e malattie sarebbero punizioni per la mancanza di fede. Una dottrina che premia i ricchi non poteva non piacere a Trump, che pochi giorni fa ha affidato proprio alla White la guida del neonato Faith Office della Casa Bianca.
Se Trump legge poco e non ha velleità intellettuali, tutt’altra aria si respira sul lato opposto della West Wing, dove di trova l’ufficio del suo vice J. D. Vance. Del vicepresidente si conoscono lo spessore culturale, la brillante storia accademica a Yale, le sue letture onnivore, la conversione al cattolicesimo passata attraverso la lettura di Sant’Agostino, il suo autore preferito. E ovviamente Vance è un caso quasi unico di autore di bestseller che finisce alla Casa Bianca: il suo “Hillbilly Elegy” (“Elegia americana”) è stato un caso letterario e un successivo successo cinematografico ben prima che cominciasse l’avventura politica dell’autore, un ex antitrumpiano poi convertitosi sulla strada per Mar-a-Lago.
Ancora poco esplorato però è il filone di pensiero – e i relativi libri di riferimento – che con Vance ed Elon Musk è arrivato alla Casa Bianca dal sottobosco della Silicon Valley. Qui per capire le letture che alimentano la visione del mondo degli uomini più potenti che affiancano Trump, bisogna risalire alle passioni letterarie e culturali del loro mentore: il tecno-miliardario Peter Thiel. Perché se c’è un padre spirituale per i nuovi leader della Casa Bianca che stanno un gradino sotto il presidente, quello è lui, il fondatore di PayPal e Palantir, l’uomo che ha finanziato la carriera di Vance, che è stato socio di Musk e capo di David Sacks, un altro della cosiddetta “PayPal Mafia”, che Trump ha chiamato alla Casa Bianca come “zar” delle criptovalute e dell’IA.
Steve Bannon, l’ideologo del movimento Maga che li odia tutti e vorrebbe allontanarli da Trump, sostiene che la cosa che hanno in comune Thiel, Musk e Sacks è che sono tutti nati o cresciuti in Sudafrica e hanno una non troppo segreta passione per l’apartheid. Ma le vere radici culturali del circolo di potenti che si ispira a Thiel le ha individuate e analizzate padre Paolo Benanti, il francescano esperto di etica delle tecnologie che è oggi uno dei massimi esperti mondiali degli scenari della digital age, nel suo nuovo libro “Il crollo di Babele” (San Paolo).
I filoni di pensiero da tenere d’occhio, secondo Benanti, sono due. Uno porta all’antropologo e filosofo francese René Girard, che Thiel ha avuto come professore a Stanford e che è diventato l’autore di riferimento prima suo, e poi dei suoi discepoli come J. D. Vance. Da Girard il gruppo ha imparato e messo in pratica nella Silicon Valley la teoria del “desiderio mimetico”, che vede il desiderio umano fondamentalmente come una continua imitazione: desideriamo ciò che gli altri desiderano perché lo desiderano. Questo crea rivalità e potenzialmente conflitti e violenze. Sempre dal pensiero di Girard, Thiel e compagni hanno esplorato a fondo il concetto del capro espiatorio, le violenze verso singoli individui o comunità su cui ricadono colpe per mali collettivi. Peter Thiel ha elaborato le proprie teorie imprenditoriali sulla base dei concetti ispirati a Girard e ha costruito PayPal e altre aziende su queste fondamenta intellettuali. E ora le idee del professore francese emigrato a Stanford (dove è morto nel 2015) sono entrate alla Casa Bianca e hanno trovato casa nell’ufficio di Vance.
L’altro fenomeno culturale originario della Silicon Valley da tenere d’occhio, secondo Benanti, è l’insieme delle idee “post umaniste” che sembrano affascinare soprattutto Musk e nascono sempre nel giro di Thiel. Un mix di movimenti che hanno in comune l’idea che l’umanità sia in crisi e quindi vada “potenziata” (con l’intelligenza artificiale, per esempio) o trasferita altrove, magari su Marte con le navicelle di SpaceX. E’ un arcipelago variopinto che viene riunito sotto l’acronimo di TESCREAL, che sta per Transumanesimo, Estropianesimo, Singolaritanismo, Cosmismo, Razionalismo, Altruismo Efficace e Lungotermismo.
Trump legge poco, ma intorno a lui c’è una nuova classe dirigente che legge, scrive ed elabora teorie fuori dagli schemi mainstream, traducendoli poi in idee che spesso stupiscono e talvolta inquietano. Per ora hanno come esito progetti di taglio economico, come per esempio la sostituzione parziale del dollaro con le criptovalute. Ma il filone culturale di chi crede che l’uomo vada “migliorato” con l’ausilio della tecnologia, partendo dall’intelligenza artificiale, riserverà sorprese nei prossimi quattro anni dell’amministrazione Trump.