L’indicibile tenerezza della Roma di Montefoschi

Un romanzo e tanti ricordi: Moravia, Morante, Arbasino, e le serate al premio Strega

A cinquant’anni dal suo primo romanzo, appena uscito il ventesimo, Giorgio Montefoschi si aggira per Roma senza cappotto nel gelo invernale con la vera eleganza che sfocia nell’atermia (avete mai visto l’avvocato Agnelli col cappotto sopra la giacca?). Come il protagonista di Un’indicibile tenerezza, edito da Nave di Teseo, protagonista lo scrittore pariolino Pietro, il vero scrittore Montefoschi dà appuntamento da Nino, ristorante dalle parti di Piazza di Spagna, bastione che resiste all’overtourism col suo chic fuori moda. Lei si è sposato una sola volta, chiedo allo scrittore senza cappotto. “Sì, tendenzialmente sono un fedele”. Non si direbbe leggendo il suo romanzo, che narra dell’infatuazione del maturo scrittore con la giovane editor Paola. Flaubert diceva che bisogna essere dei piccoloborghesi nella vita per essere spregiudicati sulla pagina. Lei però è un gran borghese, si vede perché non ha il cappotto.

“Ma perché non dovrei essere elegante, scusi?”, chiede Montefoschi sinceramente stupito. Be’, perché nessuno lo è più. “Effettivamente è vero. L’altra sera sono stato a cena con quattro amici, e avevamo tutti la cravatta, ci siamo detti: è una cosa eccezionale”. E’ una Roma in giacca e cravatta quella dei suoi romanzi. Belle case, bei vestiti, persone che parlano educatamente, in una trama che apparentemente è fatta di niente ma poi ti avviluppa in questa eleganza urbanistica, vestiaria, anche morale. Sembra una città civile, europea, solo vagamente mediterranea, Roma, nel suo libro, e non si vorrebbe uscirne mai. “Mi han sempre dato del borghese, perché io raccontavo le famiglie anche negli anni della cosiddetta rivoluzione, mentre la borghesia andava presa a randellate, il privato non esisteva più, io ero invece sempre lo scrittore dei Parioli. Ma le mie non sono mai state famiglie felici, semmai sempre in crisi”. Anna Karenina ai Parioli insomma.

Intanto al tavolo passa Alain Elkann e si ferma a salutare: “Ti ricordi quella cena a Londra coi tortellini gelati da Gaia Servadio? “Ah sì”, fa Elkann. “C’erano degli inglesi che mangiavano dei pesci orrendi, io avevo portato due bottiglie di vino che il marito inglese si era subito inguattato”. Tutto un mondo che fu molto elkanniano e soft, insomma. No Roccaraso here. A proposito, è mai stato? “Ma no, per carità”. Sarebbe interessante se un algoritmo impazzito inserisse Rita De Crescenzo, la trucidona influencer napoletana, in un romanzo montefoschiano. Perché invece la Roma che Montefoschi racconta è una Roma ideale senza le parti noiose e orrende, senza i lavori in corso e i turisti ciabattoni e le sparatorie. Con la sua lingua pulita e precisa al millimetro i suoi personaggi amano e soffrono ma sembrano pattinare su una città dove ci sono sempre dei taxi che li aspettano, e nel weekend si va a Sabaudia. “Io in realtà vado a Sperlonga, Sabaudia mi serve come fondale letterario”. E poi i Parioli. “Ma non sono più pariolino tecnicamente da cinquant’anni, vivo sulla Flaminia; anche se lì rimangono banca e barbiere”. E il circolo del tennis. “Sì, il Belle Arti, due o tre volte alla settimana”. Come nel romanzo.

Figlio di un giornalista del Messaggero, per anni anche lui collaboratore dello storico giornale romano, una vita su e giù per via del Tritone. Alla Rizzoli, “dieci anni all’ufficio stampa. C’era di tutto: Manganelli, Ceronetti, ma anche dei tipi bizzarri, come un certo Levi, un giallista che non voleva assolutamente mandare le copie omaggio ai giornalisti, diceva che era uno spreco. Il palazzo della Rizzoli stava in via Ludovisi angolo via Veneto. Al pianterreno c’era la libreria, sopra la casa editrice, all’ultimo piano la casa di produzione cinematografica Cineriz, e l’ufficio della Fallaci. “ Un uomouscì il 3 luglio e per una botta di culo bestiale il giorno stesso Andreotti partendo per New York compra il libro alla libreria di Fiumicino e viene fotografato con quello in mano e la cosa rimbalza su tutti i giornali”. Ha visto la fiction Rai? “Ma no”.

Altra femmina geniale e terribile, Elsa Morante. “Sì, eravamo amici, avevo fatto la tesi su di lei. Andavo a prenderla a via dell’Oca e poi a colazione da Babingtons e in altri posti carissimi che le piacevano e dove pretendeva però di pagare alla romana; poi ci spostavamo da Rosati dove passava qualche pischello del Mondo salvato dai ragazzini, che le urlava: ‘A Elsa! Damme ’na sigaretta!’. Alle tre e mezza si chiudeva in casa a scrivere. Neppure se Mozart o Bellini, che era il suo pittore preferito, suonasse alla porta io aprirei, diceva, perché aveva questo rapporto con l’arte completamente totalizzante”. “A un certo punto sapevo che stava lavorando a un libro importantissimo, che doveva cambiare il mondo, perché lei sosteneva che o non si scrive oppure si scrivono romanzi per cambiare il mondo. Cercammo di portarla alla Rizzoli. Allora chiamo immediatamente Mario Spagnol che era il mio capo. Me la faccia conoscere, mi fa lui col suo vocione (che Montefoschi imita perfettamente).

Organizzo. Un incubo. Bisognava farle capire che la Rizzoli non era solo Bevilacqua, non era solo monnezza. La andiamo a prendere col taxi, la portiamo da Babingtons. Io li presento, direttore, ecc. Lei comincia a urlare: ‘Ahhhh, vi date del lei’, io coi sudori freddi. ‘Fate schifo!’, strepita lei. Ma io non potevo certo dare del tu al mio capo, allora a tavola mi tocca parlare per perifrasi: ci sarebbe del sale… ci sarebbe dell’acqua… La seconda volta mi invento una cosa paracula. Sapendo appunto che le piaceva Bellini, facciamo una prova di copertina di La Storia e prendiamo ‘L’orazione dell’orto’ di Giovanni Bellini, torniamo da Babingtons, e lei felice: ma come avete fatto! Ci siamo quasi, mancava a quel punto solo l’incontro col presidente, Angelo Rizzoli”. Il mitico Angelone. “Sì, di nuovo passiamo a prenderla in taxi e io: presidente, vuole andare davanti o dietro? E lei di nuovo urla. Dopo il successo trionfale del libro la reincontrai la notte di Natale tanti anni dopo. Ma lei è un angelo, mi fece. Lei credeva negli angeli”.

Diceva del Messaggero, a un certo punto se ne andò per passare al Corriere, dove collabora ancor oggi. “Sì, il direttore Giulio Anselmi nel ’94 mi licenziò da un giorno all’altro. Io allora chiamai Paolo Mieli che mi prese con sé. Fortuna volle che proprio in quei mesi vinsi il premio Strega col mio romanzo La casa del padre. Fu un bello smacco per Anselmi”. Conta ancora lo Strega? “Per me molto, guadagnai anche dei bei soldi, che non fa mai male. L’anno scorso avevo scritto una poesia, una specie di haiku: tra Minturno e Pescara, chi vincerà la gara?”

Minturno immagino sia Chiara Valerio. E Pescara? Di Pietrantonio che poi ha vinto”. E quando vinse lei, nel ’94, in Cinquina c’era un certo Venturoli, ma vinsero i Parioli, vabbè. “Sì. Fu al quarto tentativo: i primi due anni partecipai per gioco, c’era Spagnol, sempre lui, che mi diceva: giovanotto, non farà sul serio! Poi la terza volta mi presenta Pietro Citati che scrive anche tutto un encomio sul Corriere. Mi sento a cavallo. Ma il mese prima della finale fa un articolo in cui dice che il libro più bello dell’anno è quello di Gesualdo Bufalino, che era il mio rivale; così, furibondo, mi sono ritirato. Non gli ho parlato per anni, poi abbiamo fatto pace. Citati era un genio ma era di rara cattiveria. Un sadico. La quarta volta al premio mi presentò Garboli, per fare un dispetto a Citati: ma subito quello cominciò con una serie di cattiverie: ma che fai, ritirati, non potrai mai vincere! Poi mi fa degli annunci tremendi: vince sicuro Francesca Sanvitale, che cura il Meridiano sulla Bellonci! Finché arriviamo alla sera della premiazione, al Ninfeo di Valle Giulia, e mi fa, guarda, è inutile proprio che entriamo, perché hai perso. Lì mi dicono invece che sto andando benissimo. E poi infatti vinsi”.

Citati insomma doveva essere tremendo: “Per lui era tutto pessimo, aveva solo molta ammirazione per Calvino”. Sbagliando? “Calvino è sempre stato sopravvalutato, era naturalmente uno scrittore molto intelligente. Però con uno come Parise non c’è gara. Parise aveva l’anima. Calvino non lo so. Calvino poi era protetto dal Partito comunista che era fondamentale. Io mi ricordo per esempio Daniele Del Giudice, altro bravo scrittore, affacciato dal balcone di Botteghe Oscure. Per carità, appunto, bravissimo scrittore, ma quelle cose lì contavano. Soprattutto per la mia generazione”. E lei non ha mai avuto la tentazione di buttarsi a sinistra?

“Una volta feci notare che io e Cordelli eravamo praticamente gli unici scrittori romani che non erano mai stati invitato al festival letterario di Massenzio, mentre invitavano per la quarantesima volta Erri De Luca. Gianni Borgna allora, che era assessore alla Cultura, mi chiamò, mi disse ma come, Walter si è molto dispiaciuto… dopo poco iniziò la Festa del Cinema e all’inaugurazione mi chiamarono, mi dicono: senti viene Sean Connery. Vorresti fare una prolusione su James Bond? Allora vado in Campidoglio e vengo ricevuto dal sindaco Veltroni. Mentre entriamo, Veltroni mi viene incontro, come se fossimo vecchi amici, con Connery e la moglie di Connery, vecchissima, bruttissima. Io faccio la mia prolusione”. Poi l’hanno mai più chiamata? “Dopo James Bond, mai più”.

E non si è buttato a destra? “Una volta mi telefonò la segretaria di Alemanno, dice ‘il sindaco vuole conoscerla’, quindi vado, faccio mezz’ora di anticamera, lui disse che leggeva le mie cose e voleva dei consigli per la parte culturale, gli risposi che non sarebbero riusciti a realizzare niente perché non avevano nessuno, e finì lì”.

Ma insomma lei da che parte sta? “Siccome non sono mai stato comunista mi hanno definito di volta in volta uno spurio, un democristiano o uno stronzo”. Bella tripletta, ricorda la “brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro” di Arbasino. “Ma io ho votato sempre repubblicano o socialista”. Però pure lei lo fa apposta, quelli appunto non hanno nessuno, la farebbero subito ministro e diventa venerato maestro di Fratelli d’Italia. “Ma no. Giorgia Meloni mi sta molto simpatica e mi dicono che sia intelligente, ma non la voto, non condivido certo i suoi valori né il carrozzone che si porta indietro, quello che fa fermare il treno, quell’altro che allo Strega diceva che aveva letto i libri invece no…”. A proposito di Arbasino e Fratelli d’Italia, il romanzo, non il partito, lei è anche presidente del premio dedicato al nostro veneratissimo, che si tiene a Voghera e l’anno scorso ha premiato Sabino Cassese. L’ha conosciuto Alberto, ovviamente. “Incontrato per la prima volta una sera negli anni Sessanta al Piper. Ballava scatenato. Si avvicinò, con la sua aria felpata… ‘Ci conosciamo?’ (lo imita perfettamente con la erre moscia). Io dico: non credo. Lui: ‘Sì sì ci conosciamo’. Vabbè, abbordati da Arbasino, meglio che da James Bond. “Che simpatico che era. Eravamo abbonati entrambi sia all’Opera che a Santa Cecilia, all’intervallo si faceva il capannello. Lui aveva sempre visto tutto prima, per dire, se eravamo alla Terza di Brahms lui cominciava a dire ‘ah quella volta nell’isola di Samoa ho sentito la Terza diretta da Piripicchio…”.

Certo, altri tempi. “Be’ sì. Quando usciva un nuovo romanzo era un evento. Il nuovo Parise. Il nuovo Volponi: quando uscì Corporale ricordo una presentazione straordinaria alla libreria Paesi Nuovi con Pasolini e Moravia. Moravia era tirchissimo, non pagava mai, e non sentiva niente, sordo come una campana. Gli piaceva però stupire dicendo cose intelligenti. Una volta gli raccontai che ero bloccato con un romanzo che non andava né avanti né indietro e mi fa, illuminandosi tutto: ‘Ecco la ricetta infallibile: fai un viaggio esotico, un posto dove non conosci nessuno. Il viaggio esotico funziona sempre. Non necessariamente l’India. Va bene anche Latina’”. Basta non andarci col pullman di Rita De Crescenzo.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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