L’All Star Game 1992 che cambiò l’Nba e fece nascere il Dream Team. Il racconto e le emozioni sul campo, fino alla consacrazione da Mvp. Una grande storia americana
“Mancano 30 secondi alla fine… speriamo ci sia un time-out per togliere Magic da questa partita…”. Era in stato di grazia anche coach Dan Peterson mentre commentava da Orlando l’All Star Game del 1992. Togliere Magic Johnson avrebbe significato un’esplosione di entusiasmo per l’uomo che qualche mese prima aveva fermato la sua traiettoria nella Nba per dire al mondo che era risultato sieropositivo all’Hiv.
Ma torniamo per un attimo in campo, in quel pandemonio che era diventata la Orlando Arena. Dal punto di vista del punteggio la partita non era finita, era finitissima. L’Ovest aveva quasi 40 punti di vantaggio, nella peggior tradizione di un confronto che qualche volta finisce punto a punto, ma per la maggior parte dei casi va tanti a pochi.
Lungo passo indietro per i quintetti base, giusto per farsi un’idea del livello. A Est allena Phil Jackson, fresco di primo titolo con i Bulls in attesa di mettere altre due perle prima del time-out baseball di MJ, e dopo l’inno mette in campo Isiah Thomas, Michael Jordan (i due già si detestavano), Scottie Pippen, Charles Barkley e Pat Ewing. Cinque tutto sommato buoni…
Dall’altra parte c’è Don Nelson, al tempo sulla panca di Golden State quando gli eroi a San Francisco non erano ancora Curry e Durant, ma si correva assai con il run-and-gun interpretato da Mitch Richmond, Tim Hardaway e Sarunas Marciulionis, con il non indifferente contributo di Chris Mulllin. Che era nello starting five insieme a Clyde Drexler, Karl Malone e David Robinson. E il quinto? Beh, il quinto era Earvin “Magic” Johnson.
Piccolo ma non insignificante asterisco. Loro ancora non potevano saperlo, oppure qualcuno lo sapeva visto che Sports Illustrated aveva già pronto lo shooting fotografico con tanto di maglietta e battesimo del nome: Dream Team, ma nove di quei primi dieci sarebbero stati compagni a Barcellona nella squadra più forte di sempre (per distacco). Sarebbe mancato solo Isiah Thomas per espresso desiderio di MJ. Ma questa è un’altra storia.
Torniamo in campo. L’Est ha mollato, ci sono due cose che ancora devono succedere. La prima, non fondamentale, è che vada a canestro anche Dan Majerle, l’ultimo a referto senza lo straccio di un punto. Accadrà. La seconda arriverà tra poco. Indovinato, riguarda Magic. Già, ma cosa ci fa Magic qui se non gioca da quando, era il 7 novembre 1991, aveva rivelato al mondo la sua sieropositività? Non è inutile ricordare il dibattito che si era scatenato quando, nonostante non fosse più un giocatore in attività, Magic aveva ottenuto una valanga di preferenze da parte dei tifosi per averlo comunque in campo all’All Star Game. Era risultato il quarto più votato. Ma non tutti i giocatori erano convinti questa sarebbe stata una buona idea. Karl Malone dichiarò senza girarci troppo attorno che la presenza di Magic avrebbe potuto essere pericolosa visto che negli scontri sotto canestro può sempre capitare un taglio, una fuoriuscita di sangue avrebbe gettato tutti nel panico. Serviva una presa di posizione inattaccabile, qualcosa che mettesse tutti sull’attenti senza possibilità di eccepire. La prese Isiah Thomas, il vecchio amico dei Detroit Pistons, il secondo anello di una collana formata anche da Mark Aguirre nella quale ogni tanto si inserivano anche Larry Bird e Michael Jordan, soprattutto questi due dopo il 7 novembre.
Fu Isiah, sì, quello che poi non riuscì a sottrarsi dalla sgradevolissima sensazione di aver fatto battute sulle abitudini sessuali dell’amico, a dire: Magic gioca. Sostenuto, perché un appoggio di sostanza ci vuole sempre, dal Commissioner David Stern, che aveva perfettamente intercettato ciò di cui il pubblico, lo show business e il prossimo Dream Team avevano bisogno. Ovvero: Magic di nuovo in campo. Per una grande storia americana.
Già, il Dream Team. Non ci sarebbe mai stata quella squadra con Magic a Barcellona se non ci fosse stato l’All Star Game di Orlando. E senza Magic nessuno avrebbe potuto seriamente battezzare quella squadra: “Dream Team”. Sarebbe stata altro. Forte, fortissima. Ma non Dream Team. Acclamato dal pubblico come una star di Hollywood, Magic aveva giocato principalmente nei primi due quarti. Cioè quando la partita è ancora qualcosa di simile a un confronto di basket e non una ricerca della schiacciata a uso e beneficio di fotografi e hilites. Non si era ancora in era Internet, Tommasi avrebbe detto che: “Quando non c’era Internet… Internet ero io” non senza ragione, nel 1992 The Donald appariva in un cameo interpretando sé stesso, e chi sennò? nel film: “Mamma ho riperso l’aereo”, avremmo purtroppo vissuto la stagione delle stragi di Capaci e via D’Amelio e solo a fine anno, a dicembre, sarebbe stato inviato il primo sms della storia.
Prima del gran finale Magic aveva 16 punti a referto. Per diventare Mvp di una partita ormai al garbage time aveva bisogno di qualcosa di sconvolgente, uno sturm und drang capace di rendere epico il suo ritorno in campo. E la scrittura di questo momento era solo all’inizio. Coach Dan Peterson lo ricorda in telecronaca. Ed è giusto così perché il copione prevede che Don Nelson chiami appena possibile un time-out per far uscire l’uomo con il 32 sulla maglia e offrirgli l’onore dell’applauso più forte, gli abbracci di compagni ed avversari, le lacrime dei parenti in tribuna.
Ma a Magic tutto questo non sarebbe bastato, se avesse voluto mettere un altro sigillo alla sua storia avrebbe dovuto inventarsi ancora qualcosa. 2 minuti e 52 sul cronometro, palla a quelli dell’Ovest. Mutombo (rip) ha appena preso una schiacciata in faccia da Barkley. La partita è storia, va bene, ma quando sir Charles ti butta per terra non fa mai benissimo. Dikembe vorrebbe restituire con interessi legali, ma controlla maluccio la biglia. Allora saggiamente evita e scarica lontano, sono quasi otto metri. La prende Magic. Che senza alzare la suola da terra fa partire un tracciante che spacca in due la retina. Il rumore del “ciuff” è fortissimo, una scarica elettrica che sveglia il pubblico della Orlando Arena. Oh, sta per succedere qualcosa… Per Magic diventano 17, ma sono dettagli.
Azione dopo, nel frattempo aveva messo da tre anche Michael Adams, ancora Magic. Stessa mattonella, altri tre per lui. Rientrando in difesa incrocia Isiah che gli assesta, per scherzare, una spinta che quasi lo butta fuori dal campo. Come a dirgli: “Ehi, ma ti rendi conto da deve hai tirato?” E qui va detto che una regia occulta deve proprio esserci stata. Perché la palla non vuol saperne di uscire. Nelson ha già chiamato cambio da un po’ e coach Dan in telecronaca lo ripete un’altra volta: “Adesso Magic uscirà per la standing ovation”.
Macchè, Barkley tira un air-ball, in contropiede Mutombo riceve da Drexler e può schiacciare in faccia a… nessuno, ma lui avrebbe voluto ci fosse Barkley. Un paio di azioni ancora ed ecco l’assist per Majerle. Ok, Magic, con l’assist (autentico e imperituro marchio di fabbrica) possiamo chiudere qui. Hai mandato a bersaglio anche il biondino dei Suns, hai giocato e tutti si sono comportati con te come se niente fosse accaduto. Dennis Rodman, quando ha visto che all’inizio qualcuno ti evitava, ti ha tirato un body check che hanno sentito anche quelli che stanno girando sulla ruota a Disney World. Era il segnale a tutti: giochiamo duro anche con lui.
148-113 per l’Ovest, 1 e 25 da giocare. Palla ad Isiah. E qui entra in scena il cinema. Magic manda tutti via, vuol difendere uno contro uno contro il suo amico. Scena surreale, si spostano tutti, pare di essere al playground con in palio la cosa che più conta: l’onore. Isiah fa un po’ di ball handling dietro la schiena, lo attira fuori per batterlo in velocità. Ma Magic è posseduto, oltre che il doppio di taglia rispetto al suo avversario. E quando stanno per scadere i 24 il piccolo prova il palleggio-arresto-e-tiro. Una cosa che ha fatto milioni di volte. Niente, gli viene un cross indecoroso. Dai, finiamola qui! Cosa può esserci ancora…? Majerle, che evidentemente vuol entrare negli hilites finali, inchioda una schiacciata in contropiede. Magic palesemente non ne ha più, sbuffa dopo quella sudata extra per contenere Isiah. Palla ai bianchi (East). Oh mamma mia, stavolta ce l’ha Michael!!! È come scegliere tra Clint Eastwood e Lee Van Cleef. Magic, che fai? Vai a sfidare pure lui? Magic sa che quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto. E lui toccandosi la fondina scopre di avere il fucile… oltre al senso dello show. Sa che tutto il mondo vuole vedere lui che difende su MJ. E magari gli resiste pure, e poco importa se Jordan segna. Non sarebbe lui se si sottraesse. E infatti, come un giocatore di poker, dice: vedo! Coach Peterson non sta più nella pelle. Inizia l’azione con un “ah ah ah ah” che sa di prequel di un grande finale.
Non c’è un bipede seduto in tutta la Orlando Arena. Michael scherza meno di Isiah, evita di palleggiare stile Harlem Globetrotter e va dritto verso la linea di fondo per alzarsi in un jumper che in 999 volte su 1.000 fa sentire il rumore della retina. Perché va bene l’amicizia e i buoni sentimenti, ma lui non ha un buon rapporto con le vittorie degli altri. Avevamo detto 999 su 1.000. Ok, questa volta è l’uno su 1.000, doppio ferro e palla che continua a non uscire dal campo. Ora ne mancano una trentina, di secondi, Magic non ci vede più dalla stanchezza. Isiah e Michael vanno addirittura a raddoppiarlo quando supera la metà campo. Magic riesce a ricevere la palla, va largo, ondeggia. Gli rimane davanti solo Thomas e 16 secondi sul cronometro. Ma solo 4 per tirare. E lui che fa? Ma che domande… mezzo sbilenco, stacca presto la sinistra e non ha esattamente una postura da manuale quando si mette un metro dietro la linea del tiro da tre e manda in cielo un’arancia che riceve le preghiere di mezzo mondo affinché il cerchio del canestro, se necessario, si allarghi per farcela entrare. Ed è quel che succede: solo rete. Ciufffff. Coach Dan urla un: “Nooooon esiste!!!” da cineteca e tutti quelli in campo, e non solo, decidono che non può e non deve succedere più niente che possa cambiare un finale del genere.
Tutti ad abbracciare lui, Mvp per acclamazione senza se e senza ma. Chiunque abbia sceneggiato un finale così meriterebbe un Oscar alla carriera. La chiude coach Dan con una frase che non avrebbe potuto essere più definitiva: “finisce la partita, 153 a 113… e noi abbiamo visto quello che c’è da vedere”. Sipario.