L’addio al calcio di Pepito Rossi, il campione interrotto

L’ultima partita del calciatore italo-americano con i suoi ex compagni di squadra e Alex Ferguson, il suo primo allenatore, che gli fece firmare il suo primo contratto da professionista

Nel calcio i fuoriclasse mancati si dividono in due categorie: chi non riesce a lasciare il segno per proprie responsabilità e chi, invece, non ce la fa a causa della malasorte. A questo secondo gruppo di campioni interrotti appartengono gli Alvise Zago, i Walter Bianchi e, sicuramente, anche Giuseppe Rossi, giocatore dal talento cristallino ma, ahimè, di cristallo anche nel fisico.



A Firenze non lo hanno mai dimenticato, soprattutto perché memori di quella straordinaria tripletta che il 20 ottobre del 2013 permise alla Fiorentina di recuperare da uno 0-2 iniziale fino al trionfale 4-2 in una partita divenuta ormai storica contro la Juventus, la rivale di sempre in riva all’Arno. È sembrato dunque naturale che, per la sua partita d’addio, Rossi abbia scelto il palcoscenico dell’Artemio Franchi, per un evento che vedrà coinvolti molti dei suoi ex compagni di squadra e anche Sir Alex Ferguson, il suo primo allenatore, colui che fece firmare al giocatore italo-americano il primo contratto da professionista.



“Sarà bello averlo, nonostante alla fine io abbia giocato poche partite con lo United” ha detto Rossi. Fu proprio Ferguson a notarlo e a portarlo, diciassettenne, a Old Trafford. “Il primo impatto che ebbi con lui fu molto importante. Tutti sapevamo che era un dio del calcio. Una persona umile, nonostante fosse un allenatore che aveva conquistato tutto. Trattava noi giocatori tutti allo stesso modo, dal giovane fino al più grande”. Ma la storia di Rossi parte da molto più lontano. Soprannominato Pepito da Bearzot (il Vecio vedeva nel giovane attaccante le stimmate di un altro e ben più noto Rossi, Pablito), Giuseppe nasce a Teaneck (New York) da mamma Cleonilde e papà Fernando, italiani emigrati in America.



Proprio il padre lo avvia al calcio. “È con lui che è cominciato tutto” rammenta Rossi. “Fin da piccolo, quando avevo due anni, metteva i conetti fuori in giardino per dribblare, palleggiare. Fino all’ultimo giorno (Fernando Rossi è morto nel 2010) è stato il mio compagno di viaggio, ha fatto tutto per me, tutti i sacrifici possibili”. Come quello di trasferirsi armi e bagagli a Parma per far giocare Giuseppe nelle giovanili gialloblù. Cominciò così il lungo viaggio dei Rossi. Quando si è accorto che aveva qualcosa in più degli altri bambini della tua età? “Subito, dopo la mia seconda partita, quando avevo quattro anni. Non la prima, perché alla prima, quando l’arbitro ha fischiato l’inizio, sono rimasto fermo in mezzo al campo, senza muovermi” ricorda Pepito.



“Dopo che papà mi disse ‘Giuseppe, devi muoverti di più’, ho fatto quattro gol. Da lì ho capito che avevo qualcosa in più”. All’inizio conteso dai grandi club, Rossi ha successivamente visto la sua carriera svilupparsi come un lungo calvario, una via crucis costellata da infortuni. Oggi è più grande la soddisfazione per essere arrivato là dove milioni di bambini sognano di arrivare o il rammarico per quello che poteva essere e non è stato, per il fuoriclasse che poteva diventare e che, invece, per colpa dei guai fisici, si è visto solo a sprazzi? “Bella domanda. Devo dire che sono stato fortunato ad avere questo talento e a giocare a questi livelli, perché solo pochi nel mondo ci riescono. Questo è quello che cerco di dirmi maggiormente, invece di pensare a quello che poteva essere”. “È normale che quando smetti pensi alla tua carriera e dici ‘cavolo, poteva andare meglio questo o quello’. È facile entrare in questo pensiero, ma sto cercando di dirmi di più che sono stato un uomo fortunato a fare questo sport”. Ha avuto De Rossi come tecnico alla Spal, seppur per poco. Cosa pensa di lui come allenatore, anche alla luce di quanto accaduto a Roma?

“Non so cosa sia accaduto alla Roma, ma posso dire che Daniele è un grandissimo allenatore, uno che trasmette tanta energia, uno che scende in campo con te. Hai sempre voglia di giocare per uno così. Farà sicuramente bene ovunque andrà”. Le piace il gioco di oggi, con tanti passaggi? E dove giocherebbe in questo calcio dove, in attacco, si tende a schierare una sola punta con due esterni larghi? “Il gioco tecnico a me piace tanto. Il possesso mi piace. Sono uno che vuole più tenere palla che difendere. Non sono bravo a difendere (ride…), Più si ha la palla e più ci si diverte”. “Ho giocato da solo lì davanti, come 9, non come una punta fissa ma come una che si muove, venendo a scambiare con i compagni. Oggi non ci sono più 9 così, sono giocatori che puntano sul fisico, sul buttarsi in area”. Quindi non esiste un suo erede? “Difficile perché non c’è più quel tipo di giocatore che giocava in quel modo, come facevo io. Gli attaccanti di oggi sono tutti giocatori abili a muoversi in area, bravi a fare gol. Bravi a creare gioco fuori dall’area invece ce ne sono sempre meno”.

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