Lo spettro del 1948: il ritorno alla guerra originaria

Torti e ragioni di Sanbar, teorico dei due stati due popoli, che vede un ritorno alla guerra esistenziale, di indipendenza di 77 anni fa

Il palestinese negoziatore di Oslo e teorico della formula: due stati due popoli, Elias Sanbar, sostiene sconsolato che la guerra di Gaza è un ritorno alla guerra originaria, esistenziale, di indipendenza, del 1948, e in questo è altra cosa rispetto a tutte le altre guerre combattute nei decenni successivi. Sanbar rimpiange la formula bistatuale e dice che è stata seppellita per volontà di Israele, con i coloni in Cisgiordania e con il progetto, tra il biblicismo della destra oltranzista e l’immobiliarismo trumpiano, fatale convergenza, di sostituzione etnica dei palestinesi accampati nelle terre sfuggite alla catastrofica sconfitta araba del 1948 e successive. Afferma anche Sanbar che il piano non avrà esito perché i palestinesi non se ne andranno, sono anche loro nella condizione di forza paradossale evocata un tempo da Golda Meir a proposito degli ebrei israeliani: ci difenderemo fino alla fine perché non abbiamo alcun altrove dove andare.

Si può pensare che in quanto sostiene Sanbar ci sia un elemento profondo di verità. Israele è fondamentalmente cambiato negli anni dell’occupazione e del confronto con l’islamizzazione dei Fratelli musulmani travestiti da Hamas e della loro combutta con i fronti proxy dei filoiraniani, un altro pianeta politico e ideologico rispetto all’Olp, al terrorismo dei cieli di Arafat, allo sforzo di statualità laica pur in mezzo alla violenza più efferata compiuto in quei decenni di tenebra. Il discorso non riguarda solo la destra oltranzista di Eretz Yisrael. Non è solo questione della posizione di Gantz, generale e politico centrista, rivale e avversario di Netanyahu, che è orientativamente non sfavorevole, insieme con una vasta opinione pubblica rappresentata dal Likud e dalla maggioranza parlamentare attuale, a una riappropriazione della sovranità israeliana sul territorio di Gaza, come anticipo, si presume, di soluzioni analoghe di compromesso e sradicamento per la Cisgiordania. Il cambiamento di sentimento e opzione strategica in Israele procede dalla grande crisi della via di Oslo, che travolse in un’orgia di fanatismi incrociati il grande sconfitto Rabin, il cui assassinio è una tragedia consumata ma non ancora fino alle sue estreme conseguenze, e una quantità di altri politici dotati di buone intenzioni e di illusioni sulla possibilità di arrivare a un incontro con una effettiva rappresentanza statuale dei palestinesi, per un patto di stabilità e di pace entro nuovi confini reciprocamente riconosciuti.

Il bisogno di sicurezza esistenziale non era estraneo ai meccanismi dell’occupazione dopo la guerra del 1967 e la conferma di Yom Kippur e del radicamento ebraico in porzioni della Cisgiordania; gli accordi di Camp David, che diedero a Israele e ai suoi stati vicini, Giordania e Egitto, una base solida di accordo politico diplomatico e militare, capace di reggere finora alle tensioni più estreme, furono la legittimazione di questo anelito alla sicurezza sovrana di Israele, fino al prolungamento in termini nuovi con gli accordi di Abramo, e la prospettiva cautelata dagli americani, come sempre, di una vasta alleanza antislamista ancorata alla relazione speciale da costruire con i Sauditi e i Grandi Sunniti.

Sanbar non ha torto, il sionismo nasce come un anticolonialismo, ma è vero che nel tempo, e in particolare dopo il pogrom del 7 ottobre, l’autodifesa ebraica ha incontrato una nuova frontiera di colonizzazione e estensione territoriale e etnica, a specchio, simmetrica con la pretesa nichilista di liberare la Palestina dal fiume al mare distruggendo lo stato degli ebrei. Per Sanbar, che ha un fiero sebbene sorvegliato istinto palestinese, questa è una colpa di Israele e dei suoi governi di destra. Ma è una semplificazione, una nuova caratterizzazione ideologica di un processo storico purtroppo solidissimo che ha alla base l’incapacità o l’impossibilità per le tribù palestinesi disperse dalla storia, oscillanti fra terrorismo Olp intifada e guerra jihadista, di ritrovare un fuoco nazionale, una strategia statuale di indipendenza e convivenza con la famosa entità sionista.

I lettori, anche i più ferventi nella difesa di Israele e del suo diritto a vivere entro confini sicuri e riconosciuti, guardano con preoccupazione non solo umanitaria, bensì politica, alla pressione per una ulteriore dislocazione etnica dei palestinesi sopravvissuti alla Nakba e alle sconsiderate guerre che quei confini hanno cercato di violare, con gli eserciti prima e con la guerra santa dopo. Eppure dietro la apparente follia dell’ownership trumpiana di Gaza e dietro la determinazione alla “vittoria totale” del governo Netanyahu c’è questo spettro della ripresa della guerra originaria dopo la mancata nascita di uno stato palestinese in nuce, anzi, dopo la sua negazione jihadista e il suo ampliamento, nella forma del pogrom e della razzia dei predoni, a problema regionale del Grande Medio Oriente.

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  • Giuliano Ferrara
    Fondatore
  • “Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.

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