La Romagna di Federico Cina, finalista LVMH Prize, premiato dal Fashion Trust

Trentuno anni, una borsa che è un caso internazionale. L’ansia di dover fare tutto da solo (“con l’aiuto della psicoterapia, la consiglio a tutti”), le necessarie consulenze lontano, la base a Cesena, le sfilate che contano meno, e non solo per una questione di disponibilità: “Oggi bisogna stabilire connessioni reali”

Quando appare sullo schermo – un po’ timido, un po’ burbero, con una presenza che sfida gli stereotipi dello stilista filiforme e tormentato –, Federico Cina sembra uscito da un romanzo di formazione ambientato in una Romagna intensa e malinconica, scritto da qualche autore ottocentesco. Protagonista: un giovane sensibile, abile nel complicarsi la vita con nobili sogni e sospiri nostalgici (“ho trentun anni, ma dentro di me ne sento cento”), costretto però a destreggiarsi tra il germogliante successo e le impietose necessità della realtà. Deve far quadrare i conti, gestire i social, elaborare strategie di comunicazione e lavorare all’estero pur di affermare la sua linea eponima, che gode dell’approvazione di pubblico e critica, con un interesse crescente anche da parte dei buyer. Prendiamo, per esempio, la sua “Tortellino Bag”: una borsa a forma di anello di pasta ripiena (“ma mi raccomando, in Romagna mangiamo i cappelletti, che sono tutta un’altra storia, tengo a sottolineare”), diventata in pochi mesi, come direbbero i giornalisti di moda privi di fantasia, “un oggetto del desiderio”.

Anzi, una “it-bag” ambitissima da tutte le cultrici di accessori originali. Ormai è l’emblema araldico del suo linguaggio estetico: terragno, sobrio, sofisticato e concreto, sostanziato dalla “genuinità” (la sua parola-mantra) e dall’autenticità di quei like che arrivano da un pubblico sempre più affezionato. Il curriculum del designer recita: “Le profonde connessioni con la terra natale costituiscono gran parte del dna del brand, nonostante agli inizi del suo percorso Federico sentisse il bisogno di andare lontano. “Sono nato nel posto sbagliato”, ripeteva a sua mamma già a tre anni, spinto dal desiderio di evadere”.

Dopo gli studi al Polimoda, seguiti al liceo artistico e a un attimo di disorientamento dove si era trovato a fare il parrucchiere convinto che si trattasse di una professione creativa, lascia casa per vivere tra Milano, Osaka e New York, realizzando il suo sogno. “Presto”, recita sempre il curriculum ufficiale, “sente la necessità di tornare”. E dunque eccoci qui. Parla dal suo studio di Cesena, con la t-shirt nera d’ordinanza e gli occhiali da vista da nerd. Sta per andare “molto lontano” a lavorare su linee altrui per cui svolge consulenza creativa, ma nel frattempo dovrà aggiornare i suoi network, farsi venire un paio d’idee per la prossima collezione (l’ultima, “Assunta e Giacomo”, presentata alla Fondazione Sozzani, era ispirata ai nonni, scomparsi entrambi lo scorso anno) e controllare gli ordini. “Non ho problemi a dirlo: da quando, nel 2019, ho fondato il mio marchio, ho iniziato un percorso di psicoterapia, che consiglio a tutti. Nel mio caso, mi aiuta a lavorare su suggestioni legate all’ambiente familiare e geografico – sono nato a Sarsina, un comune di poco più di tremila anime in provincia di Forlì-Cesena – e a chiarire episodi e piccoli traumi dell’infanzia. Inoltre, è fondamentale per gestire lo stress. Anzi, correggo: l’ansia di non riuscire a fare tutto bene e in tempo”.

Tra le fonti di turbolenze interiori, spicca la gestione del suo profilo Instagram, @federicocinaofficial, dove non si limita a postare foto e video delle sue creazioni, ma condivide anche riflessioni scritte di suo pugno. “Amo Instagram, ma TikTok proprio no. Non lo capisco, non mi appartiene”. E, onestamente, non lo si può biasimare: il suo approccio alla moda non si presta alle coreografie improvvisate o ai filtri glitterati. Cina crede nella profondità, nell’artigianalità e nella lentezza, concetti che su TikTok hanno la stessa popolarità di un libro di Kant in una discoteca. “La difficoltà maggiore per un giovane designer indipendente come me è proprio questa: mantenere un’identità forte e coerente in un sistema che sembra richiedere una costante presenza online. Non è facile: devi postare con regolarità, dire qualcosa di significativo e farlo velocemente, perché l’attenzione delle persone dura meno del cambio di outfit a una sfilata”.

Eppure, con una tenacia che ricorda quella dei vecchi contadini romagnoli, Cina resiste, seguendo uno schema rigoroso: “In base ai report e ai trend, decido orari, immagini e frasi che mi permettano di essere nei primi feed della giornata anche in Paesi molto lontani, come la Corea o, più in generale, l’Asia”. E il fatturato? “Siamo sui quattrocento”. Milioni? “Ma va’! Quattrocentomila”. C’è stata qualche piacevole sorpresa nata da questo uso così attento del network di immagini, non più quadrate ma rettangolari? “Be’, nel caso della “Tortellino Bag” abbiamo fatto un video che, all’inizio, non mi convinceva affatto: troppo casalingo, poco curato. Mi sono lasciato persuadere ed è diventato virale: evidentemente quella forma strana e l’assenza di eccessiva levigatezza hanno fatto presa sul pubblico. È stato ripreso e condiviso centinaia di volte”. Mai ricevuto proposte di lavoro serie attraverso i messaggi diretti? “Qualcuna. Ma il messaggio più importante è arrivato quando sono stato scelto come semifinalista, nel 2021, per il LVMH Prize, il riconoscimento più prestigioso per i marchi emergenti. Sono stato selezionato tra i primi venti su millenovecento candidati, ma ero a casa con il Covid e avevo solo una settimana per inviare tutti i materiali richiesti. Il giorno prima di partire per Parigi mi sono negativizzato, ma quell’anno il premio si è svolto da remoto”.

Le è mai capitato di ricevere commenti pubblici da hater? E come ha reagito? “In generale, la mia community condivide il mio modo di esprimermi, quindi nessuno sembra prendersi la briga di criticarmi. Però, ora che ci penso, una volta una ragazza black, credo americana, mi ha scritto: “Questa è merda che si mettono i bianchi”. Ci sono rimasto malissimo, anche perché sono attentissimo alla composizione del casting, includendo persone – non solo modelle – di età ed etnie diverse. Alla fine, me la sono messa via, ma è stato un colpo duro, soprattutto perché lo trovavo ingiusto”. Posta anche immagini di persone con corporature diverse? “Sinceramente no. Sono ossessionato dalla trasparenza e dalla coerenza: se mostrassi i miei abiti su corpi non conformi – sapendo benissimo che anche il mio non lo è – e poi quelle persone non trovassero la loro taglia in boutique, sarebbe crudele e cinico. I miei capi sono comodi, ma preferisco che lo scoprano direttamente gli acquirenti”.

E dei giornali, quei retrivi, primigeni, arcaici social, che ne pensa? Li considera obsoleti? “Assolutamente no. Credo che per fare un passo avanti, a volte se ne debba fare uno indietro. Non amo il digitale, intangibile e volatile, che non può essere conservato o consultato nel tempo”. Compra ancora riviste e quotidiani? “Certamente”. E che cosa pensa dei critici di moda professionisti rispetto agli youtuber con millemila follower che si autoeleggono divulgatori dei social? “Preferisco i professionisti, anche online. Naturalmente, tra loro ci sono figure che stimo e altre meno, ma è normale”. Non trova paradossale che un designer come lei, con ispirazioni così personali – le vacanze in colonia sulla riviera adriatica, Raoul Casadei, i cari estinti – debba dialogare, tramite i social, con il pianeta? “È stato divertente quando, a Parigi per il premio, io che mi definisco “romagnolo” prima che italiano, sono stato chiamato dalla giuria “romanian”, cioè rumeno. Nulla contro i rumeni, ma quando metti in gioco la tua energia, radicata nei tuoi ricordi, è difficile spiegare certe cose. E questo sentire, non voglio fare il buonista, si trasmette anche al di là dello stile: per me, non si tratta di piacere a tutti per fatturare di più”.

Sia sincero: c’è qualche collega che lei invidia un po’, anche bonariamente, per la gestione della comunicazione? “Certo. Jacquemus è un genio: usa il suo account come un diario privato, con foto al mare, al lavoro, con suo marito, persino del suo matrimonio. Ti fa sentire parte della sua quotidianità. Su TikTok, invece, crea video surreali, divertenti, concentrati sul prodotto, talmente belli da piacere anche a chi non lo conosce. È il primo vero designer-influencer. Lo ammiro, senza alcuna critica o ironia: mi piacerebbe imitarlo, ma non ci riesco. Espormi meno è meglio per me. E forse, per come sono fatto, è la scelta giusta”. A proposito: lei che naviga tra contenuti e immagini, pensa che il fenomeno degli influencer abbia ancora vita lunga, nonostante gli scossoni di scandali tra pandori e beneficenze discutibili? “Onestamente, credo che un certo periodo storico sia giunto al termine. Anzi, le racconto un episodio emblematico: avevo deciso di regalare la “Tortellino Bag” ad alcune testimonial di un certo calibro, pensando ingenuamente che sarebbe stato un modo per darle visibilità. Risultato? Diverse clienti si sono lamentate, dicendo che, proprio perché l’avevano vista addosso a loro, avevano perso ogni interesse nell’acquisto. Una sorta di effetto boomerang: il glamour che diventa inflazione”. E quindi, regalare borse alle celebrità digitali ha portato qualche ritorno concreto? “No. Zero assoluto. Il che mi fa riflettere su quanto il pubblico sia diventato più smaliziato: oggi vede questi regali non come un riconoscimento al talento dell’influencer, ma come una trovata di marketing spicciolo, e reagisce di conseguenza”.

Però lei è amico di Chiara Ferragni… “Certamente. Chiara è un caso a parte, una brava imprenditrice che è riuscita a inventarsi un lavoro dove prima non esisteva nulla. E non solo: ai miei inizi è stata davvero generosa, una qualità rara nel nostro ambiente. Tra l’altro, è anche nel consiglio di Fashion Trust della Camera Nazionale della Moda, che mi ha premiato con un incentivo fondamentale per realizzare le mie collezioni. Ma oggi il panorama è cambiato: le influencer rappresentano una sorta di arma a doppio taglio. C’è ancora chi le segue con entusiasmo, quasi fossero guru dei tempi moderni, e chi invece non ne può più, stanco di un linguaggio che si ripete e di una sovraesposizione che finisce per anestetizzare”. E le sfilate tradizionali, dopo le performance artistiche di “Assunta e Giacomo”? Hanno ancora un senso? “In tutta sincerità? No. Almeno non per me. Mi sono sempre piaciute le narrazioni più intime, personali, e credo che oggi ci sia bisogno di autenticità, di trovare modi nuovi per raccontare storie e creare connessioni reali. Le sfilate classiche, per quanto affascinanti, non riescono più a rappresentare tutto questo”.

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