Il problema non è il dialogo tra istituzioni, ma l’assenza di adulti capaci di offrire modelli e testimoniare speranza, dice il professore e divulgatore culturale
“Un’intervista sul dialogo scuola-famiglia? Mi aiuti a essere diplomatico, perché io su questi temi dico sempre cose terribili che fanno arrabbiare tutti, insegnanti e genitori”. Si annuncia disruptive il dialogo con Franco Nembrini, professore, dirigente scolastico e divulgatore culturale, noto, tra le altre cose, per le sue letture pubbliche di Dante e Collodi. “Guardi, io faccio un sacco di convegni su questi temi, e sa come va a finire quasi sempre?” Come? “Prima mi battono le mani, ma poi, quando arrivo al dunque, cominciano le levate di scudi degli insegnanti e dei presidi, anzi, delle presidi, perché sono quasi tutte donne”. Ora la accuseranno di maschilismo. “Ci mancherebbe, però è un tema rilevante la femminilizzazione della scuola, con la totale mancanza di figure maschili significative sul piano educativo. Si parla di assenza del padre, morte del padre, ma poi i ragazzi nelle scuole incontrano quasi solo educatrici donne”.
Diceva che fa arrabbiare insegnanti e presidi? Perché?
“Perché dico schiettamente che è un alibi, per gli insegnanti, prendersela unicamente con le famiglie e il contesto sociale. Vale lo stesso per i genitori. La verità è che sono in crisi tutti: la famiglia, la scuola e anche la Chiesa, tutte e tre le agenzie educative che hanno retto il paese per secoli”.
E cosa Le rispondono presidi e insegnanti?
“Si difendono a priori, dicono di essere lasciati soli”.
Lei dice di no?
“Io dico: guardiamo l’emergenza educativa per quella che è, di cui la difficoltà del dialogo scuola-famiglia è conseguenza, non causa”.
E quale sarebbe la causa?
“E’ un problema di testimonianza, di modelli. Io spesso sfido gli insegnanti con queste parole: da adulti, cosa diciamo di noi stessi? I ragazzi che ci guardano – e i ragazzi ci guardano sempre – cosa vedono in noi?”.
Appunto, cosa vedono?
“Tendenzialmente un mondo di adulti che li deprime o li reprime, e comunque li intristisce ulteriormente. Questa scuola, in molti casi, non solo non accompagna il disagio, ma lo provoca”.
Non crede nel patto scuola-famiglia?
“E’ la partenza più sbagliata che ci possa essere. Come se il problema fosse un dialogo tra istituzioni”.
E allora?
“E allora la domanda è personale, ciascuno di noi dovrebbe chiedersi: io di che speranza vivo? Cosa vive l’adulto di così significativo da poter diventare interessante per i ragazzi? Senza questo non si educa. Il fatto è che una generazione di adulti non ha speranze sufficienti, certezze di vita su cui guidare i ragazzi”.
Lei ha parlato di una scuola che genera disagio. Tra gli elementi ansiogeni c’è una certa concezione della valutazione…
“E’ un problema enorme. Valutare significa dare valore al tentativo di imparare dell’allievo. E invece oggi lo facciamo coincidere con l’educazione tout court, e così le mamme e i papà, col fucile spianato, guardano continuamente gli esiti scolastici sul registro elettronico e dicono: tu vali quanto tua valutazione scolastica. No, (qui Nembrini si accende davvero, ndr.) tu vali a prescindere! Io mi fido se mi accorgo che qualcuno mi dà valore prima ancora che io cambi”.
E’ possibile cambiare la scuola dall’alto?
“Bisognerebbe ricominciare davvero daccapo: distruggere e poi ricostruire. Io ho accompagnato, con alcuni incarichi ministeriali, dei nobilissimi tentativi di riformare la scuola, come la Riforma Berlinguer. Tutte cose ridotte al nulla dalla lentissima procedura dei decreti attuativi e poi scomparse di fronte all’unico vero problema della scuola italiana: non l’educazione dei giovani, ma la gestione del personale. E’ una vergogna da gridare con scandalo, e anche nella Chiesa si fa fatica a dirlo”.
Tra i partiti un tema discusso è l’orientamento verso le scuole professionali: un’opportunità per valorizzare talenti pratici, oppure – come si sente dire perlopiù da sinistra – una “condanna” classista a un futuro da operai sottopagati.
“In queste discussioni è l’idea di cultura a essere sbagliata. La cultura è nesso tra il particolare e l’universale, e questo lo può cogliere la vecchia analfabeta come il più grande scienziato. Oggi, invece, se dopo l’orientamento il ragazzo dice di voler fare il meccanico, il papà e la mamma vanno in analisi a chiedersi cosa non va. Eppure dovrebbe essere proprio la sinistra ad affermare che la persona ha valore a prescindere dal mestiere che fa, e invece proprio loro hanno contribuito a diffondere l’idea per cui il riscatto delle masse sarebbe stato diventare tutti intellettuali. Don Luigi Giussani, la prima volta in cui venne a casa nostra, chiese a tutti noi, dieci fratelli, della nostra esperienza scolastica. Dopo averci ascoltato ci disse di continuare con impegno, ma poi aggiunse: ‘però ricordatevi che la vera cultura è qui’, e mise la mano sulla spalla di mio padre, che parlava solo il dialetto bergamasco. E Giussani non le diceva tanto per dirle queste cose, ci credeva davvero! Quanto ha stimato il popolo don Giussani, quanto ha stimato la sua cultura!”.