Meno spending review, più interventi radicali per singoli settori

In Italia le finanze sotto controllo, ma sagli anni Novanta c’è un impoverimento costante. Sanità, pensioni e trasporti mostrano parecchie crepe. Serve una riforma strutturale

Anche le opposizioni non possono non riconoscere – sia pure a denti stretti – la prudenza e la responsabilità con cui l’attuale esecutivo ha gestito e presumibilmente intende continuare a gestire le finanze pubbliche. Prudenza e responsabilità cui si deve già oggi una riduzione considerevole degli oneri per il servizio del debito pubblico, associata all’apprezzamento dei mercati. Al tempo stesso, anche la maggioranza – al di là delle dichiarazioni di facciata – non può fare a meno di notare le crepe che qui e là si manifestano nel sistema di fornitura dei servizi pubblici. Stanziamenti senza precedenti per il nostro sistema sanitario non sembrano in grado di contenere e tanto meno di superare le sue tante difficoltà. Un inevitabile marginale spostamento in avanti dell’età pensionabile conseguente a un corrispondente spostamento in avanti delle aspettative di vita ha sollevato una tempesta politica e ha condotto a una precipitosa marcia indietro del nostro principale istituto previdenziale. Sul trasporto ferroviario pubblico è meglio stendere un velo pietoso. E sono solo tre dei tanti esempi possibili.



Nulla vieta, ovviamente, alla maggioranza parlamentare di pensare di poter continuare a percorrere il sentiero strettissimo tracciato dalla disciplina finanziaria e reso, al tempo stesso, accidentato dalla evidente difficoltà dell’operatore pubblico di rispondere ad alcuni bisogni dei cittadini. E nulla vieta, per converso, alle opposizioni di immaginare un improbabile futuro rilassamento dei vincoli di finanza pubblica (o, più plausibilmente, ulteriori incrementi della pressione fiscale) in grado di irrobustire il finanziamento del sistema attuale di fornitura dei servizi pubblici, nell’ipotesi molto ottimistica che ciò ne consenta il superamento delle principali disfunzioni. E nulla vieta tanto alla prima quanto alle seconde di guardare al Piano nazionale di ripresa e resilienza come al fattore in grado di rendere compatibili grandezze e tendenze che in questo momento sembrerebbero destinate ad allontanarsi, in un contesto internazionale non proprio rassicurante. Ma – è bene dirsi le cose come stanno – l’attuale e benvenuta relativa stabilità di cui gode l’economia italiana cela contraddizioni che non tarderanno a manifestarsi e che andrebbero affrontate per tempo.



Se lo si volesse fare bisognerebbe partire da una constatazione purtroppo sgradevole. E’ certamente vero che nell’ultimo triennio, superata l’emergenza pandemica, l’Italia ha fatto meglio dell’area dell’euro e nel prossimo biennio dovrebbe non allontanarsi – se tutto va bene – dalla media dell’Eurozona, ma per apprezzare la serietà del problema bisogna guardare un po’ più indietro. Nel 2024 dovremmo, forse, aver finalmente raggiunto e marginalmente superato il livello di prodotto interno lordo pro capite registrato nel 2007, prima della Grande Recessione. L’area dell’euro lo aveva già fatto dieci anni fa. La Germania già nel 2010. La Francia nel 2014. La Spagna nel 2017. Dietro di noi, sotto questo profilo, c’è solo la Grecia. Andando ancora un po’ più indietro, nel 1995 il nostro prodotto interno lordo pro capite era per poco meno dell’8 per cento superiore alla corrispondente quantità dell’area dell’euro. Oggi siamo per circa il 10 per cento al di sotto. In breve, grazie anche alle scelte (a volte sciagurate) di politica economica ma non solo, il paese negli ultimi trent’anni si è impoverito. E tanto. Nella sua interezza e non solo in alcuni suoi segmenti (come tanti miopi ritengono). E, di conseguenza, semplicemente non può permettersi ciò che poteva permettersi trent’anni fa quantomeno nei modi in cui allora poteva permetterselo. Non ci vuol molto a notare, ad esempio, che la quota dei principali capitoli di spesa sociale non è invariante rispetto al livello del prodotto interno lordo pro capite (con buona pace di chi considera come un articolo di fede il fatto che l’Italia debba spendere per la spesa sanitaria una quota sul prodotto pari a quella di altri paesi più ricchi). E, nell’attesa che l’Italia riconquisti – speriamo al più presto – i livelli di benessere perduti, sarebbe saggio fare i conti con la realtà.



In questo contesto, dal momento che le opposizioni hanno scelto legittimamente di ergersi a difesa dello status quo – senza se e senza ma, come si sarebbe detto tempo fa – la maggioranza parlamentare potrebbe seriamente valutare la possibilità di farsi interprete delle necessità di un cambiamento inteso a superare le criticità strutturali insite nella attuale struttura del bilancio pubblico. Senza essere costretti a farlo spesso malamente nell’emergenza, forse è il caso di domandarsi se il ruolo pubblico nel sistema previdenziale non debba essere limitato a una componente di base dei trattamenti previdenziali. Se, fermo restando il servizio sanitario nazionale, il suo finanziamento non debba essere radicalmente riconsiderato, unitamente alla sua gestione. Se non si debba andare verso una significativa specializzazione delle nostre università pubbliche, evitando che facciano tutto, dappertutto e in tutti i modi. E si potrebbe continuare. Non è detto che, fra l’annuale fatica di avviare una spending review che poi non parte mai (o quasi) e se parte lo fa lento pede e fra mille mugugni e la complessità di un progetto di cambiamento anche radicale di questo o quel comparto del nostro settore pubblico (con tempi coerenti con la necessaria analisi e costruzione del consenso e nella prospettiva di un secondo mandato), la prima ipotesi sia necessariamente preferibile.

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