Porsi il problema di come 1.300 pm non diventino una falange che non risponde a nessuno: l’equilibrio tra i poteri è essenziale per la democrazia
La dura guerra in corso fra la magistratura e la politica è una vera e propria lotta di potere perché da entrambe le parti è combattuta all’insegna della domanda: “chi ha la supremazia?” o “chi comanda?”. Io, dice il Parlamento o il governo, perché, compiendo le mie scelte, sono legittimato dalla volontà popolare. Io, dice la magistratura, perché, applicando la legge, sono legittimato dalla mia autonomia e indipendenza. Due effetti perversi di questa guerra si stanno già producendo. Il primo è il discredito che oggi investe la magistratura; l’altro è che le riforme costituzionali proposte dal governo diventano intoccabili.
La separazione delle carriere (meglio sarebbe dire dei ruoli) è un atto dovuto, anzi, obbligato. Lo è dal 1988, quando entrò in vigore il processo accusatorio e dal 1999, quando fu approvata la riforma del giusto processo. Se la Costituzione ora dice che il giudice che presiede il contraddittorio fra le parti, durante il quale soltanto si forma la prova, deve essere “terzo e imparziale”, non usa una endiade, cioè una figura retorica che usa due parole per esprimere il medesimo concetto. Qui i concetti sono due e distinti. Se “imparziale” si riferisce alla disposizione del giudice verso la causa in esame, “terzo” si riferisce alla posizione del giudice riguardo alle parti coinvolte. Terzo è quel giudice che, per sua natura e ruolo, non appartiene e non è commisto alle altre parti coinvolte nel processo. Terzo è il giudice che, per avanzare di carriera, non deve iscriversi ad alcun sindacato guidato dai pm. Terzo è perciò il giudice separato dal pubblico ministero. E se così dice la Costituzione, allora la Costituzione (oltre al codice Vassalli) impone la separazione dei ruoli. Chi riformò l’articolo 111 della Costituzione ne era ben consapevole: sapeva che istituiva un principio da cui la separazione dei ruoli sarebbe seguìta come un teorema. Che oggi si finga di dimenticarlo significa solo che il dibattito parlamentare si è spaventosamente abbassato di qualità.
E però la separazione dei ruoli va coordinata bene con ciò che è scritto in altre parti della Costituzione, ché altrimenti si produce ciò che il procuratore generale presso la Cassazione, Luigi Salvato, ha chiamato una eterogenesi dei fini: “perché – egli ha detto – la riforma non tocca l’indipendenza e l’autonomia del pm garantiti attualmente, e dunque ci troveremo di fronte a un pm che conserva struttura e status del giudice, ma separato, e quindi più forte”. Ed è chiaro che un pm più forte, significa poteri sbilanciati e dunque un pericolo per la democrazia.
Si immagini la situazione. Il nuovo pm è autonomo e indipendente, ha l’obbligatorietà dell’azione penale, lavora in un ufficio ma non è inserito in alcuna gerarchia, perché è e si considera un potere diffuso che non risponde alle direttive di alcun capo. Separato dal giudice, con un Consiglio superiore suo proprio, non acquisisce un potere in più, ma mantiene gli stessi poteri con una forza moltiplicata e con effetti devastanti accresciuti. Può fare quello che crede, può perseguire chi crede, può inviare “atti dovuti” ai ministri che crede. E se crede che sia compito suo perseguire la giustizia sociale, morale, politica, interpretando la legge scritta o applicando quella non scritta, è autorizzato a farlo e nessuno può fermarlo. Il procuratore Salvato, che vede bene la stortura pensa di rimediarvi così: “gli errori vanno corretti attraverso le regole processuali”, e “l’equidistanza non si ottiene con la separazione delle carriere, ma realizzando pienamente il principio che la prova si forma in dibattimento, senza dare peso a tutte le acquisizioni del pm al di fuori della fase dibattimentale”.
Giusto ma fino a un certo punto, perché quella è l’equidistanza nel processo, ma prima che cosa accade? Provi il dottor Salvato a ricevere un “atto dovuto” con cui lo si accusa, poniamo, di corruzione; provi a stare in prima pagina per giorni e mesi; provi ad andare a processo dopo anni; e provi a sentirsi richiedere di dimettersi: sarebbe soddisfatto del rimedio endoprocessuale dell’equidistanza? O non penserebbe anch’egli che un altro rimedio occorre, riguardo ai limiti da porre alla libertà di scorribande dei pm? Quando un “atto dovuto” ti avrà rovinato la reputazione, bloccata la carriera, fatto perdere onore e prestigio, fallita l’azienda, disgregata la famiglia, rovinata vita, l’equidistanza processuale non serve più.
Sembra chiaro allora che la sola separazione non basta. Su questo il procuratore Salvato ha ragione. Ma che cosa in più occorre? Occorre rivedere la Costituzione proprio nei punti che ancora si ritengono intoccabili e di cui purtroppo ci si fa ancora titolo di merito di non toccarli. L’obbligatorietà dell’azione penale è una norma manzoniana: nella pratica non può funzionare per ragioni di principio. La gerarchia dei pm è necessaria, perché in un ufficio non si sta come al bar, dove chiunque entri ordina ciò che gli piace e nessun altro avventore può dirgli alcunché sui suoi gusti. E l’autonomia e indipendenza del pm non può essere la stessa di quella del giudice, perché il pm deve sottostare a criteri di priorità, utilità, convenienza, che non può essere lui a darsi.
Chi deve darglieli? Un corpo elettorale che lo sceglie? Un assessore che lo nomina? Un organismo politico che è responsabile di fronte ai cittadini? Ci sono tante soluzioni. Una se la inventò il noto giurista Piero Calamandrei alla Assemblea costituente. Al vertice dei pm, egli pose un procuratore generale della giustizia e fece la seguente proposta: “Il procuratore generale Commissario della giustizia è nominato dal Presidente della Repubblica … Esso è il capo degli uffici del pubblico ministero, dei quali vigila e coordina l’azione; … E’ l’organo di collegamento tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato; e come tale prende parte al Consiglio dei Ministri con voto consultivo e risponde di fronte alle Camere del buon andamento della Magistratura. Rimane in carica per tutta la legislatura anche in caso di cambiamento del Gabinetto; ma deve dimettersi qualora una delle Camere gli dia uno speciale voto di sfiducia”.
Significa, questa soluzione, sottoporre il pm all’esecutivo, secondo lo spauracchio attualmente ventilato? No, significa porsi il problema di come 1.300 pm non diventino una falange che non risponde a nessuno, come è oggi, e come resterebbe anche dopo la separazione. Sembra già di sentirli. Siamo autonomi e indipendenti, siamo un potere diffuso, abbiamo l’obbligo dell’azione penale, disponiamo della polizia giudiziaria, e per di più siamo separati, cioè, come diceva Calamandrei, “non collegati con gli altri poteri dello Stato”: di cosa vi lamentate quando ricevete gli “atti dovuti”? Volete forse asservirci? Volete impedirci di manifestare con la Costituzione in mano? Volete tapparci la bocca?
No, i sinceri liberali e democratici non lo vogliono, ma neppure vogliono che la separazione diventi la foglia di fico per pratiche giudiziarie anche peggiori di quelle di oggi. Perciò la separazione da sola non basta. Se non si tocca davvero la costituzione complessiva sull’ordinamento della magistratura, la riforma da benemerita potrebbe diventare immeritevole. Non è un caso che, là dove c’è la separazione (praticamente in tutto il mondo occidentale), il pm è, in un modo o in un altro, collegato al potere politico. Chi altri potrebbe dargli le direttive di politica anticriminale, di priorità, di opportunità, di rilevanza, di urgenza? E’ un problema serio e ci si dovrebbe pensare seriamente, perché una democrazia senza separazione giudici-pm soffre, ma senza equilibrio fra poteri soccombe.