Contro i giudici che si sentono i veri interpreti della volontà popolare

Dall’influenza del diritto Ue al caso dei centri migranti in Albania, il rischio di uno squilibrio tra giustizia e politica. L’attivismo giudiziario tra interpretazioni espansive della legge e crisi della sovranità parlamentare. Sfida alla Costituzione

La questione vera – la montagna che si vede sullo sfondo, neanche molto lontana – consiste nel tipo di stato di diritto che vogliamo per l’Italia del XXI secolo, visto nell’ottica della separazione dei poteri e – più in particolare – del judicial lawmaking: cioè dei limiti al potere dei giudici di creare diritto andando oltre, o addirittura contro, la legge. Siamo, inutile nasconderlo, su di un piano inclinato. In crisi è l’idea stessa di Costituzione e di legalità, entrambe stravolte da un uso ipocrita e strumentale: ridotte al ruolo di santini, di immaginette sacre brandite per coprire disinvolture interpretative a fini politici e di potere, nobili o meno che siano.



Il quadro, almeno da questo punto di vista, è diventato ancora più incerto e fosco con l’apertura del nostro ordinamento giuridico al diritto dell’Unione europea, che prevale su quello degli stati membri. Risultato: qualunque giudice può ignorare una legge italiana se decide – in base a criteri abbastanza elastici – che essa è in contrasto con ciò che ha stabilito l’Ue. Lo stiamo vedendo nella emblematica vicenda del centro in Albania per l’accoglienza dei migranti.



La partita vera, insomma, ruota intorno alla “conquista” – da parte della magistratura intesa nell’integralità dei componenti (quindi giudici e pm, insieme) – di una quota di sovranità o – se si preferisce – di legittimazione democratica: che sarebbe in questo modo condivisa con gli organi rappresentativi, cioè col Parlamento. Il giudiziario otterrebbe così, almeno di fatto, il riconoscimento della sua funzione di contropotere, deputato – nella costituzione materiale del nuovo millennio – a tutelare i diritti fondamentali nel caso in cui essi fossero minacciati dalla “dittatura della maggioranza”. Il controllo giudiziario, infatti, è per definizione contro-maggioritario: ma quando vanifica una legge, vanifica la volontà dei rappresentanti del popolo.



Sul piano alto dell’architettura costituzionale la separazione delle carriere, al di là dei suoi effetti benefici di distanziamento verso lo scivoloso e oscuro sentimento di colleganza che unisce le due componenti togate, ha questo di positivo: scindere il Judiciary non significa affatto indebolire l’indipendenza dei pm, poiché questo timore infondato è semplicemente uno dei tanti pretesti vacui usati nel tempo per opporsi ai tentativi di riforma (come la misteriosissima “cultura della giurisdizione”). Significa, invece, bloccare o quantomeno rallentare questa marcia di conquista, sinora non abbastanza resistita, verso un nuovo e preoccupante modello di separazione di poteri. O, forse, verso la sua stessa fine, a vantaggio del potere emergente: quello giurisdizionale.



Nei circoli più o meno esoterici dei giuristi, proposte del genere circolano ormai da molto tempo: il buon vecchio Montesquieu avrebbe oramai fatto il suo tempo; la separazione dei poteri sarebbe quindi un arrugginito arnese ottocentesco da smaltire al più presto; nelle attuali società, con le loro esigenze complesse e contraddittorie, la decisione proveniente dal Parlamento democraticamente eletto, cioè la legge, è solo un fastidio, un incidente di percorso che si interpone fra il popolo e il suo vero interprete: il giudice. Il quale, di conseguenza, non sarebbe più tenuto a individuare la regola per decidere un caso cercandola nel quadro delle norme esistenti, ma potrebbe invece crearla in base al suo personale sentire: chiamando poi tutto questo “legalità”, o interpretazione della legge conforme alla Costituzione.



Dare legittimazione democratica in senso stretto al giudice è insomma un’operazione molto insidiosa, sopra tutto in realtà come quella italiana in cui la magistratura non trabocca certo di sane “virtù passive”; non pratica cioè la cristianissima strada del self restraint: l’astensione dalle spire della tentazione, che qui assume il sembiante malioso dell’attivismo marcatamente interventista anche nei media e nelle istituzioni estranee al mondo della giustizia.



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