L’antimafia imbalsamata e la perdita della capacità di dubitare

Mentre i boss cambiano faccia e chi li denuncia è sotto scorta, i vecchi santoni pensano a come succedere a se stessi

L’ultimo aggiornamento del sito ufficiale della Fondazione Falcone è dell’ottobre 2023, un anno non qualunque nella storia dell’antimafia, l’anno delle due manifestazioni concorrenti per il 23 maggio a Palermo, l’anno delle manganellate agli studenti e ai sindacalisti che stavano nel corteo “sbagliato”, quello non ufficiale, quello senza santi e santoni.

Oggi, all’alba del 2025, l’icona di una resistenza invecchiata, fiaccata dal tempo e dalla noia c’è, si vede, ma si preferisce guardare da un’altra parte. E non è d’aiuto il trito refrain gattopardesco che si tira fuori quando la discussione di queste cose langue, per il quale tutto deve cambiare affinché tutto resti come prima, perché qui nulla è cambiato, ma proprio nulla, e la salma dell’antimafia aspetta solo la mummificazione. Cosa nostra invece sì che si è data da fare, purtroppo: spara di meno, tiene la testa bassa, investe di più soprattutto nella droga, premia i nuovi padrini senza dimenticare i vecchi che a poco a poco tornano in libertà per condanne scontate o per permessi premio (una specie di welfare parallelo senza regole scritte). Salvo Palazzolo, il cronista palermitano che ha documentato per primo queste scarcerazioni allarmanti, è stato messo sotto scorta la settimana scorsa dopo che gli investigatori hanno rilevato nel corso di alcune indagini “gravi ostilità nei suoi confronti”: una goccia di duro realismo nel mare di scorte e tutele secolari, molte delle quali sembrano ormai puri elementi di sceneggiatura.

Intanto, sul palcoscenico dell’antimafia da messa cantata sfilano gli antichi protagonisti dei bui tempi che furono. Uno su tutti: Gaspare Mutolo, il collaboratore di giustizia che nella foga di confessare si autoaccusò anche di delitti che non aveva commesso. Oggi, da uomo libero, il “pentito” torna alla ribalta in occasione della riapertura delle indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella per dire che si dimenticò di riferire a Borsellino che il killer dell’ex presidente della Regione siciliana era un mafioso e non un terrorista nero: eh sì, gli era passato di mente. E per non deludere gli astanti, sorpresi dalla ritrovata pulsione dichiaratoria, butta giù il canovaccio utile a rileggere l’antico delitto di uno spacciatore palermitano ucciso 49 anni fa per aver sfregiato una ballerina ceca: in fondo i cold case sono come il nero, stanno bene con tutto.

A volte ritornano, magari con calma, magari con rassegnata sincerità. E’ riapparso dopo anni Tano Grasso, fondatore 35 anni fa a Capo d’Orlando della prima associazione antiracket d’Italia. Ed è tornato per dire di un obiettivo mancato clamorosamente: “Oggi, se va bene, su cento commercianti e imprenditori che pagano le cosche ce n’è uno che denuncia. Tanti, troppi operatori economici ritengono conveniente pagare”.

Ci vuole tempo per capire ma anche per cambiare. Uno degli ambiti pericolosi dell’antimafia impietrita, incapace di generare figure nuove, è stata proprio la perdita della capacità di dubitare. Molto spesso buona parte dell’antimafia prêt-à-porter che ha impastato il cemento delle false certezze con la sabbia del giudizio sommario ha fatto un torto alla verità storica.

L’ex magistrato Roberto Scarpinato, sempiterno polemista, scrittore e alacre collaboratore di Micromega ha messo la sua esperienza al servizio della politica, diventando senatore per il Movimento 5 stelle. Solo che una cosa è la ratio giudiziaria, un’altra è la speculazione politica. In questo, Scarpinato è riuscito a tenere sempre la barra a dritta, restando fedele a un’unica visione dei fatti e del mondo: laddove c’è un mistero, nel migliore dei casi c’è un complotto, e laddove c’è un complotto nel migliore dei casi c’è bisogno del suo utile operato. Solo che lui ha un chiodo fisso (del resto questa è una storia di storie immobili e di punti fermi quasi eterni). Il chiodo fisso di Scarpinato si chiama Mario Mori, ex capo del Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri ed ex direttore del Sisde. L’ex magistrato, quando non era ancora ex, ci ha provato in ogni modo a incastrarlo, dalla mancata perquisizione del covo di Totò Riina a un presunto aiutino al boss Bernardo Provenzano per la sua latitanza. Lo vede dappertutto, dietro ogni sussurro malevolo o peggio ancora dietro ogni complotto: e che si tratti di una coda polemica in Commissione antimafia o di un rigurgito d’indagine sullo stragismo nero applicato alle cose di Cosa nostra poco importa. Anche se assolto a ripetizione, Mori c’entra sempre e chi non la pensa così è passibile di fatwa.

L’ex capo del Ros è uno dei tanti motori immobili attorno al quale si sviluppa questo gioco di incastri senza evoluzione. Un altro che, da sempre, non gli vuole troppo bene è Nino Di Matteo, sostituto della Procura nazionale antimafia e grande architetto del processo sulla presunta trattativa stato-mafia (con Mori protagonista, ovviamente) schiantatosi contro l’assoluzione di massa decisa dalla Cassazione. Da mesi Di Matteo attacca la Suprema Corte (ci ha pure scritto un libro sul “processo che non si doveva fare”, quello della Trattativa s’intende) e rivendica il suo sacrosanto diritto di parola. Solo che quando è lui a criticare, si erge il baluardo dell’articolo 21 della Costituzione, quando sono gli altri che criticano lui, si sprofonda nell’attacco pericoloso e delegittimante. Nell’aria immobile dell’antimafia il magistrato Di Matteo, che pure ha condotto e conduce un’azione coraggiosa e costante contro i boss, tenta da anni di sottrarsi al clima di sospetti del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Un atteggiamento che non ha mai convinto Fiammetta Borsellino, la quale ha stigmatizzato più volte il “suo tentativo di discolparsi e la mancanza di volontà di dare un contributo alle indagini”.

Quello del depistaggio è il monolite dell’ipocrisia di stato applicata al blabla militante. Tra mille cortei, comizi, rivelazioni rateizzate, propalazioni a effetto, processi moltiplicati, verità dimezzate e dignità centellinata, non si è riuscito a trovare mezzo colpevole (ancora in vita) della creazione del pentito farlocco Vincenzo Scarantino che per sedici anni ha mandato fuori strada le indagini sull’attentato in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Di Matteo che si è sempre detto estraneo alla gestione di Scarantino si ritrovò invece a difenderlo a spada tratta quando lo stesso Scarantino, chissà forse in un lampo di rara consapevolezza, decise di ritrattare le false accuse. E lo fece con una teoria acrobatica secondo la quale la ritrattazione in realtà “avvalorava ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”.

Di Matteo è anche inconsapevole pietra angolare della divisione tra i Borsellino. Salvatore, fratello del magistrato assassinato, nella ricerca della sua verità lo ha difeso sempre e comunque criticando i suoi nipoti, i figli di Paolo – Lucia, Fiammetta e Manfredi – e il loro avvocato Fabio Trizzino che invece hanno più volte messo in dubbio la sua versione dei fatti.

Le famiglie delle vittime non sono immuni da spaccature e polemiche, e anzi l’unica prova di una evoluzione nel pensiero libero, non allineato con gli stereotipi e i luoghi comuni di un movimentismo sbadigliante, viene proprio da certe accese dialettiche come quelle dei Borsellino. C’è poi il caso della discordanza di opinioni tra Alfredo Morvillo, ex magistrato ora in pensione e fratello di Francesca Morvillo (moglie di Giovanni Falcone morta con lui nella strage di Capaci in cui persero la vita anche gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro) e Maria Falcone, la grande sorella dell’antimafia ecumenica, creatrice di una Fondazione che si è fatta museo con tre sedi (Palermo, Bressanone e Roma), che ha aperto un “American corner” in collaborazione con l’ambasciata Usa, che ha inaugurato una sede a Malta, che raccoglie finanziamenti senza troppi problemi e che rilascia benedizioni antimafia che talvolta destano perplessità. Negli ultimi anni Alfredo Morvillo ha criticato la vicinanza di Maria Falcone a “impresentabili” sostenuti politicamente da Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, entrambi condannati per fatti di mafia (un riferimento era al sindaco di Palermo Roberto Lagalla). Lei lo ha gelato stigmatizzandone i “commenti dottorali”, e dichiarandosi contro chi “gioca a ping pong con la memoria”.

L’impegno politico come segno di memoria personale e famigliare, talmente resistente al tempo da slalomare tra destra e sinistra, da risultare vincente anche quando perde. Caterina Chinnici, figlia di Rocco Chinnici, il magistrato ucciso dalla mafia nel 1983 e considerato l’ideatore del pool antimafia, era stata eletta eurodeputata come indipendente nelle liste del Pd (nel 2014 e nel 2019). Sempre il centrosinistra l’aveva poi candidata alla presidenza della regione Sicilia contro Renato Schifani. E aveva perso. Ma Chinnici non si era data per vinta e aveva pensato bene di cambiare coalizione, aderendo al partito di colui il quale l’aveva sconfitta, Schifani appunto: dal Pd a Forza Italia il passo, anzi il salto è breve, basta avere un guardaroba ben assortito. Insomma col centrodestra aveva ritentato la corsa per un posto a Strasburgo. Ma anche lì non ce l’aveva fatta. Solo per la magnanimità del recordman delle preferenze, quell’Edy Tamajo che da solo aveva totalizzato 121.452 voti (cioè in un colpo quanto tutti i voti della lista dell’Alleanza Verdi e Sinistra nell’intero collegio Isole) e che aveva rinunciato al posto, era riuscita ad arrivare al Parlamento europeo in quanto prima dei non eletti. Dettaglio non proprio dettaglio: la foto sui manifesti elettorali di Chinnici uno (versione Pd) e Chinnici due (versione Forza Italia) è sempre rimasta la stessa. In qualche modo coerenza fu salva.

Resistenza e inossidabilità sono fondamentali quando si cerca di perpetrare la successione a se stessi. Il fondatore di “Libera” don Luigi Ciotti ha navigato con fermezza nei mari tempestosi delle polemiche più dure, cioè quelle innescate da lui medesimo. Una volta si ritrovò a essere accusato dal sostituto procuratore della Dda di Napoli Catello Maresca di “gestire i beni sequestrati attraverso cooperative non sempre affidabili”. Il magistrato fu lapidario: “Ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”. Putiferio, solidarietà a don Ciotti, allarme democrazia, puf!: tutto rientrato.

Ma l’agguerrito presbitero è uno che porge con la giusta cautela la parola di Dio, un po’ meno la propria. Ad esempio per bocciare il progetto del ponte sullo stretto di Messina ha tirato fuori un argomento molto affilato e poco raffinato: “Non unirà solo due coste, ma certamente due cosche”. Anche qui putiferio, solidarietà a don Ciotti, allarme democrazia, puf!: tutto rientrato. E nulla ci fa se si mescola la cultura del sospetto con l’incultura del sottosviluppo, l’idea del progresso con il pregiudizio dell’irredimibilità. L’agar, il terreno di coltura dell’antimafia immobile è proprio il massimalismo, sebbene la storia insegni che si tratta di una scelta poco conveniente, perché a forza di spingere sull’acceleratore ci si dimentica dell’utilità dei freni.

Gli anni passano e persino le scuole e gli studenti che, all’indomani delle stragi del 1992, erano stati la prima scommessa nei piani di contrasto alla criminalità organizzata, sono diventati l’ambito che interessa meno. Nelle linee guida dell’educazione civica del ministero dell’Istruzione, alla lotta alle mafie è riservato un minimo accenno, ben inferiore a temi più attuali, anzi “attuali”, come l’educazione stradale. Il direttore dell’Ufficio scolastico regionale della Sicilia Giuseppe Pierro aveva creato un gruppo di lavoro per integrare i programmi secondo regole più in linea con la situazione locale (della serie la Sicilia non è Disneyland). Ma poi ha lasciato il suo incarico e tutto è finito nel dimenticatoio. L’immobilismo ha ripreso il controllo.

Claudio Fava, figlio del giornalista Pippo assassinato da Cosa nostra a Catania nel 1984, a lungo esponente della sinistra nelle sue varie sfaccettature partitiche, ha testimoniato che nulla nell’universo antimafioso è cambiato, a cominciare dalle commemorazioni che riguardano suo padre: “In questi 41 anni non ho mai visto davanti alla lapide un sindaco della mia città. Mai. Poco è contata la patria politica dei vari sindaci, sedici in tutto: mai ho incrociato uno di loro quando, alle cinque del pomeriggio di ogni 5 gennaio, la famiglia, gli amici, i catanesi si raccolgono ai piedi della lapide che vollero e posero, non a caso, gli studenti di Catania, non i suoi amministratori”.

I giovani cercano di farsi spazio nei meandri polverosi e bui di un sistema di militanza che pare blindato, vietato ai non imbalsamati. Qualche giorno fa i ragazzi di Addiopizzo, a trentaquattro anni dalla famosa lettera al “Giornale di Sicilia” dell’imprenditore Libero Grassi che denunciava pubblicamente il suo estortore (poco prima di essere ucciso dalla mafia), hanno lanciato una app del consumo critico, “Pago chi non paga”, per conoscere gli esercenti che hanno aderito alla campagna antiracket. Un soffio di novità seppur in un panorama incupito dalle nubi dell’immutabilità. C’è solo un dettaglio non ininfluente ai fini della nostra storia: i ragazzi che continuiamo a chiamare ragazzi, oggi hanno superato i quarant’anni.

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