Tornare alla teoria della speranza in un tempo che non conosce futuro

Guerre, crisi e disastri ambientali sembrano essere diventati il propellente ideale di una cultura che si rifugia nel torpore della decadenza. Siamo in una crisi della coscienza storica di dimensioni gigantesche, ma le soluzioni ci sono. Il libro di Gili e Mangone sulla “Passione del possibile”

Nel suo discorso d’insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump ha annunciato per gli Stati Uniti d’America l’avvento di una nuova “età dell’oro”. Non so quanto l’annuncio abbia entusiasmato gli americani, ma di certo non mitigherà in alcun modo lo sconforto e la sfiducia che attanagliano l’Europa e molte altre parti del mondo. Guerre, crisi economiche, crisi politiche, disastri ambientali sembrano essere diventati il propellente ideale di una cultura per lo più incapace di fronteggiare la realtà e che proprio per questo si rifugia nel torpore della decadenza. L’anno giubilare nel quale siamo entrati il 24 dicembre scorso è stato dedicato non a caso alla speranza: una sorta di frustata che Papa Francesco ha voluto dare al nostro tempo per “non cadere nella tentazione di ritenersi sopraffatti dal male e dalla violenza”. E allora ecco la domanda fatidica: perché in certe epoche storiche la speranza spinge le persone a guardare ottimisticamente al futuro e in altre, come accade oggi per noi europei, la speranza è invece così difficile?

Per rispondere a questa domanda consiglio la lettura di un libro di Guido Gili e Emiliana Mangone da poco uscito nelle librerie: Speranza. Passione del possibile (Vita e Pensiero). A dire il vero, gli autori, entrambi sociologi, non sembrano curarsi troppo del deficit di speranza che contraddistingue il nostro tempo; sviluppano piuttosto un discorso teorico sulla natura della speranza, sulle sue molte forme, le sue metafore, i suoi soggetti, i sui luoghi, il suo oscillare tra i mali del vaso di Pandora, diciamo pure, i “lieti inganni” di leopardiana memoria, e la “necessità ontologica” senza la quale gli uomini non possono vivere. Ma forse proprio per questo il loro discorso è più utile che mai a illuminare il deficit di speranza nel quale ci dibattiamo.

A tal proposito trovo assai significativa l’analisi di quelli che vengono definiti i “tre diversi ordini di condizioni che influenzano il sorgere e il rafforzarsi della speranza o, al contrario, ne favoriscono il deperimento: le condizioni culturali, strutturali e istituzionali”. E’ proprio una condizione culturale che ci consente infatti di comprendere il deperimento della speranza che abbiamo registrato in questi anni nella nostra vita individuale e sociale: la trasformazione verificatasi in ordine alla concezione del tempo e della storia. Come dicono Gili e Mangone con riferimento a due importanti antropologi, Kluckhohn e Kroeber, “ogni cultura è un precipitato storico che giunge alle nuove generazioni dal passato”. Se però ci guardiamo intorno, ciò che culturalmente soprattutto colpisce è proprio la difficoltà che abbiamo a pensare al passato, a riconoscerci in una tradizione, e quindi a pensare al futuro. Con conseguenze piuttosto serie sia per la vita individuale che per quella sociale. Passato e futuro sono infatti inscindibili. Da un lato, senza la nostra disponibilità ad accettare il peso del passato, non c’è futuro; dall’altro, possiamo sperare nel futuro solo accettando il passato.

Estendendo alle identità collettive ciò che MacIntyre dice per le identità individuali, potremmo dire che il passato, le tradizioni, diciamo pure la memoria delle origini sono esattamente ciò che, assicurando continuità, consentono alle comunità di inoltrarsi nel futuro, senza rimanere prigioniere di chiusure più o meno tradizionaliste. Come ognuno di noi sente di essere un po’ la risultante di una trama, di una storia significativa, che raccontiamo, non per rimanervi imprigionati, ma perché è precisamente quella storia che ci consente di guardare al futuro, allo stesso modo le identità collettive, quando sono vitali, tendono a riconoscere l’importanza delle proprie radici, perché sanno che è su questo “sfondo” che esse si proiettano nel futuro. Del resto è in virtù del futuro che l’essere umano è in grado di sviluppare le sue caratteristiche essenziali: pensare, amare, immaginare, agire, promettere. Tutto ciò che è umano, persino l’odio, è rivolto a costruire qualcosa in una dimensione spostata nel tempo; implica, per dirla con i nostri autori, “un’inclinazione insopprimibile a sperare nel futuro”. Ma che cosa si può sperare in una società che fatica a pensare sia il passato che il futuro e tende a chiudersi esclusivamente nel presente?

Siamo di fronte a una crisi della coscienza storica di dimensioni gigantesche. L’io moderno e la società moderna, per fare un esempio, erano ancora contrassegnate da una grande spinta verso il futuro, si pensi all’idea di progresso, ma l’io e la società odierna no. Abbiamo ristretto il nostro orizzonte temporale al presente; al massimo ci facciamo guidare dal principio del piacere; i nostri desideri vanno soddisfatti immediatamente; differire una qualsiasi gratificazione può essere oggi soltanto segno di stupidità. In questo modo, però, stiamo anche depotenziando la nostra energia vitale, il nostro slancio verso il futuro, il desiderio di cambiare la realtà nella quale siamo. Un po’ come nel monologo di Macbeth, che alla notizia della morte della moglie vede la propria vita svuotarsi di senso, anche noi potremmo dire: “Domani, poi domani, poi domani” in attesa semplicemente che il nostro tempo finisca. La perdita d’interesse per il futuro sfocia così nella percezione del tempo come un presente reiterato, immobile, privo di senso: il tempo tipico di chi non ha speranza, al quale Gili e Mangone hanno il merito di contrapporre la pazienza delle sentinelle che, in qualsiasi tempo, sanno aspettare l’aurora. “Nella pazienza, la speranza”, appunto.

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