Se la melanconia è la situazione in cui tutto perde senso, come si può darle un senso? Un libro

Per Paolo Godani “Melanconia e fine del mondo” (Feltrinelli) il melanconico si dispera dei nostri patetici tentativi per dare un senso al mondo, imponendogli schemi, idee e utopie. La sua non è una forma di negazione della realtà, ma un arricchimento di essa

Uno che di filosofia qualcosa aveva capito, Blaise Pascal, si chiedeva se è possibile fare un buon uso delle malattie. Nietzsche, per sua parte, cadde in una depressione tremenda dopo essere stato piantato in asso dalla bella e imprevedibile Lou-Andreas Salomé, al punto di scrivere: se non riesco a cavare qualcosa di valido da questo fango per me è finita. Non c’è bisogno di essere il mezzo giansenista di Clermont-Ferrand, e nemmeno il Grande Sifilitico in odore di protonazismo, per farsi domande del genere. Anche alla più schiappa fra di noi le cose possono andare male, parecchio. Certe volte non c’è scampo, e allora tutti quanti ci chiediamo che fare. L’umor nero, la cupaggine, il tedio della vita, lo spleen, in una parola: la melanconia, quando ci prende, di solito reagiamo in due modi. Speriamo che la nottata passi in fretta e senza lasciare troppe cicatrici, per poi tornare a fare le stesse cose che facevamo prima: correre a destra e a manca, brigare, affaccendarci, portare acqua al mare e raddrizzare le gambe ai cani. Oppure possiamo cavalcare la tigre e vedere se dentro la melanconia c’è qualcosa che vale la pena di essere preservato e ricordato. La seconda alternativa sembra molto strana. Infatti, che cosa può esserci di buono nell’intristirsi fino al punto che la fonte della vita sembra essiccata?

Se la melanconia è la situazione in cui il mondo e le cose perdono di senso, come è possibile trovarle un senso? Se lo chiede Paolo Godani nel suo ultimo libro, Melanconia e fine del mondo (Feltrinelli, 224 pp., 17,10 euro). La risposta è più o meno questa: forse il vero problema non è che il mondo perde di senso, ma la pretesa che un senso ce l’abbia. Il melanconico non dispera tanto del mondo, quanto dei nostri patetici tentativi per dargliene uno, imponendogli schemi, idee, progetti, utopie, gli orizzonti delle magnifiche sorti e progressive che con il mondo c’entrano come i cavoli con la merenda. Il vero non senso non è l’accidia del melanconico ma la convinzione dogmatica che l’uomo è l’animale desiderante il quale, a differenza degli altri enti del creato, è venuto al mondo per fare del mondo un posto migliore.

Il malinconico è uno che ha rinunciato alla vana agitazione del desiderio e per questo ci fa l’impressione di un fesso mangiaufo. Ma forse i fessi siamo noi, che ci facciamo belli dell’oltranza del nostro desiderio. Partendo da qui, diventa possibile rovesciare l’abituale prospettiva sulla melanconia come si fa con un guanto e vederne il lato nascosto. La melanconia viene scambiata per una forma di negazione e impoverimento della realtà. E invece sotto sotto è un arricchimento, anche se non ci sembra così. Cosa c’è di arricchente nella melanconia? Qualcosa più che umano: dismettere gli abiti logori del desiderio. Come diceva Socrate (non il Socrate di Platone ma quello di Senofonte, anche se poi era la stessa persona), non avere desideri è davvero divino.

Gli dèi sono felici non perché hanno soddisfatto le loro vogliuzze ma perché non ne hanno mai avute. Se c’è una forma di vita servile e sciocca, è la vita desiderante. Cioè la nostra, o meglio la vita che di solito vediamo celebrata e propagandata da psicanalisti, professori, antropologi, mistagoghi del progresso e dello sviluppo, sovversivi di varia estrazione, economisti. E’ possibile cavarsi fuori da queste chiacchiere e inceppare la macchina del desiderio? Basterebbe smetterla di volere che le cose siano diverse da come già sono. Siamo ultraconvinti che le cose vanno male e il nostro dovere è migliorarle. Prendiamo partito per una cosa contro un’altra, e così perdiamo di vista l’insieme. Il malinconico è uno che ha preso partito per il mondo nella sua interezza: ha compreso che le cose, non più separate le une dalle altre ma collegate dai fili invisibili della necessità, sono come devono essere.

E a noi resta poco da fare, tranne riconoscerne la perfezione. Godani ci fa vedere come nella chiara notte della melanconia “l’indifferenza è diventata sentimento dell’uguale consistenza di tutte le cose, l’inibizione all’azione è ora passione per la contemplazione”. Dopo essere arrivati all’ultima pagina torniamo al mondo con sguardo audace e terso. Cominciamo a capire che il mondo non ha tutto questo bisogno della nostra buona volontà, ed è inutile che ci agitiamo tanto. A un libro di filosofia, davvero, non si può chiedere di più.

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