Le banche e le loro grandi mosse, ancora troppo piccole

In pochi mesi le acque apparentemente stagnanti della finanza italiana si sono agitate come non succedeva da anni. Ma servono soggetti di scala europea. Il nodo del modello industriale, ovvero della convenienza dell’operazione

Cinque annunci di importanti operazioni straordinarie si sono susseguiti ultimamente in quello che era il tranquillo e un po’ asfittico mercato della finanza italiana.

1) UniCredit acquisisce una quota importante di Commerzbank e non fa mistero della sua volontà di salire nella proprietà della banca tedesca fino ad averne il pieno controllo. 2) Il Banco Bpm lancia un’offerta pubblica di acquisto della società di gestione del risparmio Anima. 3) Lo stesso Bpm acquista dallo stato italiano, che sta dismettendo la partecipazione, una quota di proprietà del Monte dei Paschi di Siena (Mps), mentre altre quote vengono acquistate dal gruppo Caltagirone e da Delfin, holding della famiglia Del Vecchio, primo passo di una presunta (ma mai ufficialmente dichiarata) intenzione di fondere Bpm e Mps, con la benedizione del governo, al fine di costituire il cosiddetto “terzo polo” bancario italiano dopo Intesa San Paolo e UniCredit. 4) Quest’ultima lancia a sua volta un’offerta pubblica di acquisto di Bpm. 5) Dal canto suo, Mps lancia un’offerta pubblica di scambio (quindi offrendo proprie azioni, non denaro liquido) volta ad acquisire la totalità (o almeno due terzi) di Mediobanca, altro e diverso tentativo di realizzare il cosiddetto terzo polo.

Sullo sfondo di tutto questo si svolge la cruenta battaglia per modificare la gestione delle Assicurazioni Generali, di cui sono importanti azionisti, da un lato, proprio Mediobanca, che ha finora espresso e sostenuto l’attuale management di Generali, e, dall’altro, il gruppo Caltagirone e Delfin, che invece lo vorrebbero cambiare. Battaglia che dovrebbe concludersi l’8 maggio prossimo, giorno dell’assemblea di Generali.

In pochi mesi le acque apparentemente stagnanti della finanza italiana si sono agitate come non succedeva da anni. Senza voler esaminare il merito di ciascuna operazione – ci penserà poi il mercato a farlo – si può dire prima facie che sembrano essersi avviate tendenze positive per il sistema nel suo complesso: si ambisce in tutti i casi a far nascere soggetti bancari più grandi degli esistenti, in modo da attrezzarsi a sopravvivere meglio, possibilmente a prosperare, in un mercato che è già in parte divenuto globale ed è destinato a valicare ulteriormente i confini nazionali. Un mercato che, quindi, necessita di pesi almeno medi, non di pesi piuma.

Vi sono però dei ragionamenti più sottili da fare. Intanto, va bene ingrandire la dimensione di una banca ma l’ideale sarebbe far nascere un soggetto che abbia scala europea, che sia pertanto in grado di osare l’inosabile: sfidare le grandi banche americane e cinesi per la conquista di fette del mercato globale, a cominciare dalla stessa Europa. Invece le operazioni di cui parliamo, eccezion fatta per il tentativo di UniCredit di appropriarsi di Commerzbank, non superano i confini italiani. Il rapporto Draghi sul futuro della competitività europea spende parole aspre sulla frammentazione del sistema bancario europeo lungo le frontiere nazionali.

Poi c’è la questione del cosiddetto modello industriale. Un’impresa finanziaria che ne acquisisce o si fonde con un’altra deve ovviamente puntare a creare un’entità che guadagni di più delle due imprese di partenza. I modi per guadagnare di più sono essenzialmente tre: risparmiare sui costi, eliminando duplicazioni fra le due imprese che si uniscono (personale, sistemi informatici, eccetera); aumentare i ricavi conquistando quote di mercato aggiuntive a parità di tipo di servizio venduto; aumentare i ricavi vendendo servizi diversi, a più alto prezzo.

Il primo modo – sinergie di costo – è tanto più importante quanto più le due imprese nubende si sovrappongono, ad esempio disponendo entrambe di un’ampia rete di sportelli che si fanno concorrenza nello stesso territorio. In questo caso, preso qui ad esempio di possibili sinergie di costo, va però tenuto presente che i risparmi implicherebbero licenziamenti, quindi costi sociali politicamente ardui, e riduzione della concorrenza, che può allarmare la relativa Autorità.

Il secondo modo – estensione del modello esistente – presuppone che l’impresa risultante dalla fusione abbia, rispetto alle due che si fondono, un’appeal commerciale più forte, convincendo clienti di imprese concorrenti a cambiare campo per acquistare gli stessi servizi. Possibile, ma molto difficile in un mercato che si va restringendo per le ragioni che dirò subito.

Il terzo modo – vendere servizi diversi da quelli tradizionali, a più alto prezzo – è di gran lunga il più interessante e promettente. Il mercato dei servizi bancari tradizionali si va restringendo perché un numero sempre maggiore di famiglie non considera più il conto corrente bancario una forma di detenzione del risparmio e cerca da una banca servizi avanzati di pagamento; perché un numero sempre maggiore di imprese si finanzia direttamente sul mercato anziché presso una banca, da cui invece cerca servizi di consulenza e assistenza.

Qualunque operazione straordinaria coinvolga banche e altre imprese finanziarie va valutata secondo questi criteri. E’ comunque pacifico che i tempi saranno lunghi. Le Autorità coinvolte, in primis quelle di vigilanza (la Bce con l’ausilio della Banca d’Italia) e poi quelle antitrust (la nazionale e l’europea), iniziano a esaminare le proposte dal momento della presentazione dell’istanza formale e, soprattutto in casi complessi, hanno bisogno di mesi per giudicare tutti gli aspetti di stabilità finanziaria e di coerenza con le norme a tutela della concorrenza. Detto per inciso, l’istruttoria non è e non può essere pubblica. Insomma, apprestiamoci ad avere pazienza, sapendo che il tempo è galantuomo.

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