Rimettere la vittima al centro della scena penale segna una regressione pericolosa

Se l’imputato è presunto innocente, e non solo a chiacchiere, la vittima non è tale fino alla condanna dell’imputato. Definirla vittima in partenza, e tutelarla in quanto tale con la fanfara dei media, rischia di creare solo guasti

Condivido le perplessità che Ivan Scalfarotto ha espresso ieri a Ermes Antonucci sul disegno di legge costituzionale, approvato in prima battuta dal Senato, che inserisce all’articolo 24 della Costituzione il comma: “La Repubblica tutela le vittime di reato”. Non intravedo con chiarezza cosa potrebbe discenderne, ma temo anch’io, come Scalfarotto, che possa assecondare “una visione vittimocentrica del processo penale”. Uno dei luoghi comuni più nefasti, in Italia, suona più o meno così: “Va bene il garantismo per gli imputati, ma ci vuole anche il garantismo per le vittime”. E’ un cortocircuito logico. Perché (salvo casi particolari che qui non sto a precisare) se l’imputato è presunto innocente, e non solo a chiacchiere, la vittima non è tale fino alla condanna dell’imputato. Definirla vittima in partenza, e tutelarla in quanto tale con la fanfara dei media, rischia di creare solo guasti. Ricordo, con l’occasione, che l’avvocato francese Daniel Soulez Larivière non ha scritto soltanto, nel 1993, Il circo mediatico giudiziario, ma quindici anni dopo ha firmato insieme alla psicologa Caroline Eliacheff un pamphlet altrettanto preveggente intitolato Il tempo delle vittime. I due sostenevano che dalla Bibbia a oggi “tutti gli sforzi delle società sono stati tesi ad allontanare progressivamente la vittima dalla scena penale”, e che ridarle centralità segna una regressione pericolosa, un tarlo che finirà per distruggere la civiltà giuridica: “Un tempo i giudici venivano sempre sospettati di essere portaborse dello Stato. D’ora in poi, saranno sospettati di essere i servitori delle vittime, cosa che del resto queste ultime, sostenute anche dai media, si aspettano”.

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