La struttura elastica di Hamas, fuori e dentro la Striscia

La parata del gruppo a Gaza ha oscurato i festeggiamenti in Cisgiordania, dove la scarcerazione dei detenuti può cambiare tutto. Analisi delle immagini girate dai terroristi che vedremo ancora per settimane

Quando Yahya Sinwar era detenuto nelle carceri di Israele, mentre si occupava di eliminare gli altri prigionieri che considerava traditori, di scrivere un romanzo e di imparare l’ebraico, era ossessionato dall’idea che dovesse iniziare non soltanto a parlare come un israeliano, ma anche a comportarsi come un israeliano, a pensare come un israeliano. Era sicuro che entrando nella mente dei cittadini dello stato ebraico avrebbe capito come sconfiggerli. La prigione gli servì come momento di studio e di osservazione. Osservava i secondini, gli agenti dell’intelligence, i dottori. Leggeva e imparava, sicuro che prima o poi sarebbe uscito nonostante la condanna plurima per terrorismo. Non si sa in quale momento esatto della sua vita Sinwar abbia concepito l’idea di sferrare contro Israele un attacco diverso dai soliti lanci di razzi, ma nel farlo non ha trascurato quello che aveva imparato in prigione: l’immagine, la propaganda, l’effetto sul morale dei suoi e degli israeliani. Per questo i terroristi hanno documentato i pogrom nei kibbutz, volevano far vedere la violenza per galvanizzare i palestinesi e aumentare il senso di paura e insicurezza degli israeliani. Il metodo dell’immagine di Sinwar non è morto con lui il 19 ottobre del 2024 in una casa di Rafah, ma è diventato intrinseco al modo di agire di Hamas che lo ha messo in pratica anche domenica scorsa, quando è entrato in vigore il cessate il fuoco e i miliziani sono usciti dai tunnel non con le vesti lacere e con i segni della guerra protratta da quindici mesi, ma mettendo in bella vista le macchine tirate a lucido, le uniformi perfette e le armi, tantissime armi, anche in mano ai bambini. Hamas sapeva che le prime immagini dei tre ostaggi sarebbero state sue, così ha costruito la sceneggiatura, affidando ad al Jazeera il racconto esclusivo che poi ha fatto il giro del mondo ed è arrivato anche in Israele. Hamas ha voluto far vedere che è forte, pronta a combattere, che ha armi a non finire e può permettersi di organizzare una parata mentre libera gli ostaggi. “Quando abbiamo visto le tre ragazze liberate – dice Mikhael Milshtein al Foglio – tutti abbiamo avuto un moto di sollievo. Conosco la madre di Romi Gonen, il suo ritorno mi ha toccato personalmente. Ma allo stesso tempo, avevo gli occhi pieni delle immagini di Hamas che risaliva dai tunnel, che brandiva le bandiere della vittoria e voleva che noi le guardassimo. E’ stato quello il momento in cui ho pensato: che senso ha parlare di giorno dopo dentro la Striscia di Gaza? E’ chiaro che Hamas farà di tutto per essere il protagonista del giorno dopo, lo sta già facendo”. Milshtein è uno degli esperti più autorevoli in Israele di studi palestinesi, dirige il forum dedicato presso il Centro Dayan, ha molte fonti nella Striscia e si rende conto che anche tra i palestinesi non è diffusa l’idea che Hamas sia distrutta: “Ho chiesto a un amico a Gaza quale fosse la sua sensazione. E’ stato chiarissimo: Hamas è ancora qui, prenderà il controllo degli aiuti umanitari che entrano dentro la Striscia, farà da polizia, tornerà a imporsi come l’unico in grado di distribuire cibo, carburante, sicurezza. Noi israeliani subiremo quelle immagini per settimane, ogni liberazione degli ostaggi sarà così”.


Le immagini di Hamas a piazza Saraya erano girate tra le gente, con angolazioni tali da mostrare una folla entusiasta e densa. Sui social sono apparse immagini dall’alto, pubblicate da alcuni account palestinesi contrari a Hamas, che hanno invece mostrato che il raduno era molto più piccolo di quello che sembrava. Non è stato possibile verificare quelle foto, che rivelerebbero un processo di costruzione della scena da parte di Hamas molto accurato. “A fissarci con le immagini a Gaza però, abbiamo tralasciato quello che accadeva nello stesso giorno ma in altri posti”, avverte Milshtein.

Quindici mesi di guerra hanno indebolito Hamas, che non è oggi la stessa organizzazione in grado di mettere in atto il 7 ottobre. Anche se la sua rete di tunnel sotterranei non è stata del tutto smantellata e quindi nasconde ancora armi, mezzi e miliziani, il gruppo ha perso i suoi combattenti meglio addestrati e i suoi capi più importanti: Yahya Sinwar e Mohammed Deif. “Mohammed Sinwar, il fratello di Yahya, è un capo militare, è rispettato, è esperto, ma non è suo fratello: non ha una strategia. Conosce il campo di battaglia, la sua organizzazione, ma non è un pianificatore come Yahya. E’ molto rispettato, anche temuto, ma è un’altra cosa. A Gaza Hamas esiste ancora, ma non rappresenta più una minaccia diretta”. Milshtein racconta che domenica sera la parata di piazza Saraya a Gaza City ha oscurato i festeggiamenti in Cisgiordania, a Gerusalemme est, davanti alla prigione Ofer da cui sono stati scarcerati i novanta detenuti palestinesi che Israele ha lasciato uscire in rispetto dell’accordo. La festa era più grande e soprattutto le persone urlavano Kulna Dafa Hamsawiyya, “Tutta la Cisgiordania è Hamas”. Lo stesso portavoce militare di Hamas, Abu Obeida, il miliziano dal volto coperto che esprime la linea e le minacce del gruppo, ha detto che la lotta si sta spostando verso la Cisgiordania, dove Tsahal ha iniziato un’operazione antiterrorismo per colpire le roccaforti del gruppo. “Vogliono infiammare la Cisgiordania, dove il consenso per Hamas è cresciuto e la fiducia nell’Autorità nazionale palestinese è sempre meno. Molti dei detenuti che Israele scarcererà vengono proprio dalla Cisgiordania e il loro ritorno o anche il loro esilio, se si deciderà di mandarli fuori, avrà un effetto dirompente. Nella lista ci sono detenuti che ricordano molto Yahya Sinwar, come Ibrahim Hamed, leader militare di Hamas in Cisgiordania”.


Hamas, rispetto ad altri gruppi, ha una struttura meno rigida, fatta proprio per superare ogni scossone, per riadattarsi, per mettersi comodo nel vuoto di potere e dominarlo. “Questo non vuol dire che sia invincibile, ma che se gli si lascia un po’ di potere, come nella Striscia, sa come usarlo e può rispuntare altrove, come in Cisgiordania. Poi c’è un altro fattore da tenere in considerazione: la popolazione non manifesta scontento nei confronti di Hamas, c’è sostegno o menefreghismo. Nessuna critica. Molti palestinesi guardano ancora al 7 ottobre come a un momento di orgoglio, non si interrogano sul perché è iniziata la guerra”.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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