Il regista iraniano Mohammad Rasoulof racconta il dolore, il coraggio e la lotta per i diritti delle donne nel suo film Il seme del fico sacro. Nato dall’esperienza della prigione, il film arriva nelle sale italiane il 20 febbraio e rappresenterà la Germania agli Oscar come miglior film straniero. “La libertà di parola va difesa a gran voce”
Due volte in carcere, quaranta giorni di isolamento a Evin, la stessa prigione in cui è stata detenuta la nostra Cecilia Sala – con cui si complimenta “per essersi presa il rischio voler fare il suo lavoro in un paese difficile e per il suo coraggio, perché un europeo non è abituato a quelle difficoltà e quindi posso immaginare quanto sia stato difficile per lei” –, una nuova vita dopo esser stato costretto a scappare dal suo paese, l’Iran, per non essere arrestato di nuovo. Il regista Mohammad Rasoulof oggi viaggia continuamente per promuovere il suo nuovo film, Il seme del fico sacro (The seed of the sacred fig), che dopo aver vinto il Premio speciale della giuria all’ultimo Festival di Cannes, esce nelle sale italiane il 20 febbraio prossimo per Lucky Red e concorrerà agli Oscar per la Germania nella categoria miglior film straniero.
“Durante la mia esperienza in prigione, mi è venuta l’idea di questo film”, dice al Foglio il regista, già autore del pluripremiato Il male non esiste (2020). “La mia seconda volta dietro le sbarre, nel 2022, è coincisa con l’inizio in Iran delle rivolte per il movimento Jina (Donna, Vita, Libertà) e ovviamente, insieme ad altri prigionieri politici seguivamo i cambiamenti sociali e la rivolte proprio da lì dentro, stupendoci giorno dopo giorno del coraggio delle donne. Una volta uscito, ho ripensato a quanto mi fu confessato un giorno da una guardia di Evin, e cioè che avrebbe voluto impiccarsi davanti l’ingresso di quella prigione. Quello che pativa lui, era un profondo rimorso di coscienza, ma al tempo stesso non aveva il coraggio di liberarsi dall’odio che nutriva per il suo lavoro. Una storia come questa – e ce ne sono davvero tante in Iran – mi convince sempre di più che il movimento delle donne iraniane avrà successo e raggiungerà i suoi obiettivi. Non sono in grado di fare previsioni politiche, ma la Repubblica islamica ha perso molto terreno ed è in una situazione fragile. Tutte le repressioni attuate dal governo possono tenere temporaneamente la situazione sotto controllo, ma alla fine, come in casi già visti, il governo stesso cederà alle richieste del movimento”.
Il risultato è stato questo suo film doloroso, crudo, ma assolutamente necessario per conoscere e per non far più finta di nulla. Un film che Rasoulof ha fatto a distanza (come Jafar Panahi e molti altri registi iraniani), riunendo mese dopo mese gli attori e lo staff tecnico in gran segreto. “A volte, durante le riprese, la paura di essere arrestati era tanta, ma è stato il coraggio la forza trainante del gruppo che ci ha consentito di continuare a lavorare”. Il seme del fico sacro inizia con i festeggiamenti di Iman (Missagh Zareh) per la promozione a giudice istruttore del Tribunale della Guardia Rivoluzionaria con la sua famiglia. In concomitanza, c’è l’inizio del movimento di protesta popolare seguito alla morte di una giovane donna. Con lui c’è sua moglie Najmeh (una straordinaria Soheila Golestani, l’unica tra le persone dello staff a essere rimasta in Iran) e le due figlie Rezvan (Masha Rostami) e Sana (Setareh Maleki), scioccate da quanto sta accadendo e dalla contraddizione che quella figura paterna rappresenta. A un certo punto, la pistola del padre scompare ed è lì che iniziano i problemi. “Quell’arma è una metafora del potere in senso lato – precisa il regista, che nel frattempo sta lavorando a tre sceneggiature – ma crea anche un’opportunità per i personaggi principali della storia di rivelare i propri segreti che emergono scena dopo scena con risultati tragici”.
“Gli ultimi quarant’anni della storia islamica sono pieni di eventi difficili che non sono stati raccontati, è arrivato il momento di farlo, oggi più che mai. La sottomissione indiscussa alle istituzioni religiose e politiche al potere ha creato profonde divisioni all’interno delle famiglie, ma confido nelle nuove generazioni, perché hanno dimostrato di aver voluto intraprendere una scelta diversa e più aperta per combattere i loro oppressori. Io, con la mia troupe, ho cercato di mostrare tutto questo nel film che ha una narrazione cinematografica ben lontana da quella dominata dalla censura nella Repubblica Islamica e sicuramente più vicina alla sua realtà. Mi auguro pertanto che la comunità cinematografica mondiale garantisca un sostegno efficace a un film come questo, perché la libertà è fondamentale e soprattutto quella di parola deve essere difesa a gran voce”.