All’esame della Consulta passano cinque dei sei quesiti referendari legati a temi cruciali per il paese. Ecco quali leggi intendono abrogare
La Corte costituzionale ha deciso sull’ammissibilità di sei quesiti referendari abrogativi su tematiche di grande rilevanza politica, economica e sociale presentati nei mesi scorsi dopo la raccolta firme. Dopo i dibattimenti in Camera di consiglio partecipata nella Sala di udienze pubbliche a Palazzo della Consulta, i giudici costituzionali hanno ritenuto ammissibili cinque referendum relativi alla cittadinanza e al lavoro, giudicando invece inammissibile quello sull’autonomia differenziata poiché “l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari”.
Il collegio non ha deciso nel suo plenum (15 giudici), ma era composto dal minimo legale di 11 giudici, presieduti temporaneamente da Giovanni Amoroso, presidente facente funzioni fino a quando il Parlamento – arrivato di recente alla sua quattordicesima fumata nera – non eleggerà i quattro giudici attualmente scaduti.
Cittadinanza
Dopo aver superato le 500 mila firme richieste per legge, il referendum sulla cittadinanza lanciato da +Europa e altre associazioni si prepara alle urne. Il quesito mira a modificare le norme vigenti in tema di cittadinanza (la legge n. 91 del 1992) per ridurre da 10 a 5 anni il termine di soggiorno legale ininterrotto in Italia ai fini della presentazione della domanda di concessione della cittadinanza da parte dei maggiorenni. In Italia, si legge sul sito dei promotori, “la legge era già così dal 1865 al 1992, quando la legge n.91 ha introdotto una irragionevole penalizzazione dei cittadini extra Ue”.
“Siamo convinti della solidità delle ragioni a sostegno della validità del referendum sulla cittadinanza, sappiamo però anche che il giudizio di ammissibilità della Corte sui referendum è sempre imprevedibile”, ha detto Riccardo Magi, deputato di +Europa e tra i promotori del referendum, entrando a Palazzo della Consulta per la camera di Consiglio partecipata al termine della quale si è detto fiducioso sull’arrivo del quesito alle urne già nella prossima primavera.
Lavoro
Sono ben quattro i quesiti referendari proposti dalla Cgil in tema di lavoro. Tre per abrogare alcuni punti del Jobs Act, riforma del lavoro introdotta nel 2014 durante il governo Renzi, e uno che mira ad abrogare le norme che limitano la responsabilità dell’impresa appaltante in caso di infortuni sul lavoro. Oltre quattro milioni di firme raccolte in 1.036 scatoloni depositati lo scorso luglio presso la Corte di cassazione, fra cui spuntano quelle di Giuseppe Conte, Maria Elena Boschi e Elly Schlein. Ma nel Partito democratico (lo stesso a cui apparteneva Matteo Renzi al momento dell’entrata in vigore della riforma) non tutti hanno seguito l’esempio della segretaria, come ad esempio Alessandro Alfieri, Debora Serracchiani e Irene Manzi, che hanno manifestato a più riprese la loro intenzione di non firmare.
Nel dettaglio, il primo quesito (“lavoro tutelato”) chiede di abrogare le norme che impediscono il reintegro al lavoro in caso di licenziamenti illegittimi, con l’intenzione di ripristinare per lavoratrici e lavoratori operanti in unità produttive con più di 15 dipendenti la normativa dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori come modificato dalla la riforma Fornero del 2012, ossia la regola della reintegrazione nel posto di lavoro nei casi più gravi di licenziamento (quelli del tutto privi di giusta causa o giustificato motivo, oggettivo o soggettivo).
Il secondo quesito punta a un “lavoro dignitoso”, e si concentra sull’abrogazione delle norme che facilitano i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese (dunque con meno di 15 addetti), per le quali attualmente vige un tetto massimo di indennizzo in caso di licenziamento illegittimo.
“Lavoro stabile” è il titolo del terzo quesito, che chiede di abrogare quelle norme che hanno “liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine”. Si intende dunque far ritornare in vigore l’obbligo di causale per il ricorso al contratto di lavoro a termine, oltre all’abrogazione della possibilità che tale causale possa essere individuata dalle parti individuali del contratto di lavoro (con il rischio di assunzioni a termine troppo discrezionali e senza alcun controllo).
Infine, nell’ultimo quesito denominato “lavoro sicuro” punta all’abrogazione delle norme che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro negli appalti, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Si agisce dunque sull’attuale normativa, che esclude la corresponsabilità del committente per gli infortuni sul lavoro collegati alla specifica attività produttiva dell’impresa appaltatrice, sia negli appalti che nei subappalti.
Autonomia differenziata
Il referendum per l’abrogazione totale della legge Calderoli, quindi, non si farà. Il quesito, ritenuto poco chiaro, chiede infatti che sia abrogata l’intera legge n.86 del 26 giugno 2024, ed è stato promosso dal “comitato referendario per l’abrogazione dell’autonomia differenziata“, il cui consiglio direttivo è guidato dal presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick. La legge in questione, secondo il comitato, “spaccherà l’Italia in tante piccole patrie, aumenterà i divari territoriali e peggiorerà le già insopportabili diseguaglianze sociali, a danno di tutta la collettività e, in particolare, di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, giovani e donne”.
Tra i firmatari dell’iniziativa ci sono il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e diversi esponenti dell’opposizione come Elly Schlein, segretaria del Pd, Giuseppe Conte, leader del M5s, Nicola Fratonianni di Sinistra Italiana e Riccardo Magi di +Europa.
Lo scorso novembre, i giudici costituzionali si erano già pronunciati sulla legge in questione a seguito dei ricorsi presentati da quattro regioni (Puglia, Toscana, Sardegna e Campania) dichiarando l’illegittimità di sette suoi punti e interpretandone in modo costituzionalmente orientato altri cinque. Solamente la regione Veneto è intervenuta con una memoria redatta dal costituzionalista Mario Bertolissi per sostenere l’inammissibilità del quesito. Nessun intervento a difesa della legge, invece, da parte dell’avvocatura dello stato.